"L’Operazione Barbarossa civilizza i popoli slavi: dato che il nostro Alleato è lanciato alla conquista della Russia, vi è la necessità assoluta di un corpo di spedizione italiano per affiancare il titanico sforzo bellico tedesco allo scopo di far prevalere i valori della Civiltà e dei popoli d’Occidente sulle barbarie dei territori orientali".
Era il luglio del 1941 e a scrivere queste parole nero su bianco su BÒ, rivista universitaria dei Giovani Universitari Fascisti di Padova, era niente di meno che Giorgio Napolitano.
In effetti, come spesso accaduto lungo tutto l'arco della sua vita, il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, scomparso ieri 22 settembre 2023 all'età di 98 anni, è sempre stato capace (spesso grazie ad una stampa compiacente) di uscire indenne da diversi episodi che definire "foschi" sarebbe eufemistico.
Di fatto, il ritratto che si può pennellare di una figura come quella di Napolitano potrebbe somigliare molto a quello cantato da Giorgio Gaber nel suo brano "Il Conformista".
Parliamo, infatti, di un uomo in grado di abbandonare, immediatamente dopo la caduta di Mussolini e la liberazione di Napoli da parte degli Alleati, la militanza all'interno dei circoli fascisti per riconvertirsi in fervente anti-fascista, fino ad essere eletto nel 1953 tra le fila del Partito Comunista Italiano.
Parliamo di un uomo capace di trasformarsi da comunista "stalinista", impegnato financo nell'applaudire la violenta repressione attuata dall'Unione Sovietica nel contesto delle rivolte nell'Ungheria del '56, in comunista "migliorista", abbracciando l'omonima corrente interna al PCI e ponendosi come unico fine quello di appoggio all'architettura atlantista ed europeista e, dunque, al vincolo esterno.
Molto si potrebbe dire sulle vicende che hanno caratterizzato la torbida vita di Napolitano, dalla controfirma del Lodo Alfano al conflitto di attribuzione sollevato contro la procura di Palermo nell'ambito dell'indagine Trattativa Stato - Mafia, ma a noi piace concentrare l'attenzione proprio sull'aspetto che concerne quel costante appoggio incondizionato nei confronti del vincolo esterno.
A testimoniare la cieca fedeltà ai dettami di Washington e Bruxelles, un anno chiave in tal senso è il 2011.
Fu proprio nel 2011, infatti, che si iniziò ad assistere al cambio di paradigma rispetto al ruolo all'interno dell'ordinamento dello Stato del Presidente della Repubblica, che da figura di garanzia principiò a configurarsi sempre più come attore ingerente nelle scelte di indirizzo politico.
Esempio ne sono l'appoggio all'aggressione deliberata della Libia voluta da USA, Francia ed Inghilterra, la forzatura sull'acquisto dei caccia americani F35, il supporto al referendum costituzionale promosso da Renzi ma, soprattutto, il sostegno ad un vero e proprio golpe bianco che portò alla caduta del governo democraticamente eletto di Silvio Berlusconi in favore dell'insediamento a Palazzo Chigi dell'esecutivo tecnico guidato da Mario Monti, che molti lutti addusse in seguito agli italiani.
Fu in quel contesto che la "maestosa difesa delle istituzioni democratiche" valse a Napolitano l'appellativo - coniato dal New York Times - di "Re Giorgio".
Peccato che tale "maestosa difesa delle istituzioni democratiche" abbia segnato l'inizio di uno dei periodi più cupi della storia Repubblicana, periodo tutt'altro che conclusosi.
Ancora oggi, infatti, siamo più che mai schiavi di una visione ideologica che vede il nostro Paese incapace di immaginarsi protagonista nella Storia, ancorato alla tragica zavorra del vincolo esterno, in un perenne scivolamento verso un baratro dove i princìpi e i diritti costituzionali vengono costantemente soppiantati dall'affermazione del libero mercato e dove il rigore delle regole di bilancio - regole decise altrove e contro ogni possibile interesse nazionale - calpesta senza remore quei pochi diritti sociali che ci sono ancora rimasti.