“Sono i sogni a far vivere l’uomo. Il destino è in buona parte nelle nostre mani, sempre che sappiamo chiaramente quel che vogliamo e siamo decisi ad ottenerlo”.
Queste parole venivano pronunciate da un uomo, Enzo Ferrari, che sicuramente non necessita di presentazioni. Un italiano che, come innumerevoli altri, ha contribuito a rendere grande il nostro Paese, grazie ad una visione densa di passione ed entusiasmo; visione della quale sentiamo molto la mancanza e che dovremmo ad ogni costo recuperare.
D'altronde, date carta e matite colorate ad un bambino e chiedetegli di disegnarvi una macchina: state pur certi che la farà rossa.
In effetti, la lunga tradizione che, grazie anche ad uomini come Ferrari, l'Italia può vantare nel settore dell'auto, ha lasciato un'impronta significativa non solo sul Paese, ma anche sul mondo intero.
Dagli inizi del XX secolo, quando i primi veicoli a motore apparvero sulle strade italiane, fino ai giorni nostri, l'industria automobilistica italiana ha visto la nascita di marchi leggendari e conosciuti in tutto il mondo, come Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Lamborghini, Maserati, Ferrari... delle vere e proprie pietre miliari che hanno fatto la storia del motorsport e della cultura popolare, contribuendo a costruire l'immagine dell'Italia come quella di un Paese di eleganza, lusso e potenza.
Da simbolo di libertà a oggetto del desiderio, l'auto ha dunque profondamente influenzato la cultura italiana, plasmandone l'identità e l'immagine ma, più prosaicamente, ha anche avuto un enorme ruolo dal punto di vista meramente economico/industriale.
Infatti, l'industria automobilistica italiana ha da sempre rappresentato un importante motore dell'economia del Paese, portandoci ad essere uno dei maggiori produttori di automobili in Europa e nel mondo, generando un'ampia gamma di posti di lavoro (da quello prettamente manuale della fabbrica fino ai settori della ricerca e sviluppo).
È grazie a tutto questo che l'automotive italiano ha rivestito a lungo un ruolo imprescindibile all'interno del nostro tessuto produttivo, qualificandosi come voce di primissimo piano del nostro export.
Oltre a quanto detto finora, non si può non sottolineare come l'industria automobilistica italiana sia stata letteralmente fondamentale nella creazione di un'infrastruttura di trasporto moderna ed efficiente per il nostro Paese, supportando l'espansione delle reti stradali e autostradali e contribuendo a rendere il trasporto più sicuro e alla portata di tutti.
Negli ultimi anni, tuttavia, il settore dell'automotive italiano, un tempo fiorente e all'avanguardia, sta vivendo un periodo di tragico declino, con un impatto negativo non solo sull'economia del Paese, ma anche sulla cultura e sull'identità nazionale.
Basti pensare che, con poco più di 1,3 milioni di vetture immatricolate nel 2022, il mercato auto del Bel Paese ha segnato il minimo storico degli ultimi 44 anni.
Immatricolazioni ai minimi storici, dunque, ma pagate quasi a peso d'oro. Eh sì, perché a fronte della flessione nelle vendite, infatti, in termini di valore, il quadro, non risulta poi così drammatico: 37,6 miliardi di euro, pari addirittura ad un +5,6% sul 2021.
Il dato potrebbe apparire "rincuorante" se non fosse che in realtà dietro a questi numeri non si cela nient'altro che una mazzata sulle tasche degli italiani. L'ennesima, a dirla tutta.
A frenare la discesa del valore, nonostante il crollo dei volumi, sono stati infatti i minori incentivi statali (passati da oltre un miliardo del 2021 ai circa 280 milioni del 2022, differenza che hanno dovuto mettere di tasca propria i clienti, tenendo su il valore netto degli acquisti), i minori acquisti delle famiglie con un calo del 16% dovuto sia alla mancanza degli incentivi e agli alti prezzi sia ai tempi di consegna divenuti oramai biblici e, infine, la diminuzione degli sconti (dovuta proprio alla scarsa disponibilità materiale di vetture).
E così, arriviamo al dato forse più impressionante di tutti: il prezzo medio netto delle auto immatricolate nel 2022 ha superato i 28.100 euro, con una crescita del 16% rispetto ai 24.300 dell'anno precedente.
Ripetiamolo: il prezzo medio netto delle auto immatricolate nel 2022 ha superato i 28.000 euro.
Per comprendere ancora meglio di cosa si stia parlando, si pensi che nel 2013 il prezzo medio che gli italiani pagavano per un'auto nuova era 18.000 euro. In meno di dieci anni, dunque, il prezzo medio per l'acquisto di una vettura è aumentato di oltre il 56%.
Ancora più impietoso il paragone con il passato meno recente: nel 1975 per portarsi a casa una Fiat 500 servivano 1.064.000 lire (circa 6.000 euro aggiornati al potere d'acquisto attuale), mentre la 500 contemporanea ha prezzi a partire da 16 mila euro.
Comprare un'auto nuova sta divenendo sempre di più un lusso, riservato soltanto ai pochi che ancora possono permettersi di spendere certe cifre (soprattutto se tali cifre si pongono in relazione ai bassi salari e all'alto costo della vita).
In tal senso, ad aggravare il problema e possibilmente a dare il colpo di grazia definitivo potrebbe essere la messa al bando della vendita di veicoli endotermici (diesel-benzina e gpl) a partire dal 2035. Una misura decisa e imposta da Bruxelles, con il supposto fine di contrastare i cambiamenti climatici nell'ottica della cosiddetta "transizione green".
Gli unici a rimanere al green saranno invece milioni di italiani che, non potendo permettersi l'oneroso acquisto di un'auto elettrica, resteranno letteralmente a piedi.
Non solo. Secondo un’analisi di Anfia (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica), tale folle provvedimento comporterà “la perdita di circa 73.000 posti di lavoro”, a fronte dei quali ne saranno creati solo 6mila nell’ambito della mobilità elettrica. Il saldo è di quasi 70mila posizioni lavorative in meno.
Addirittura, più pessimistiche sarebbero le stime della UILM (il sindacato dei metalmeccanici della UIL), secondo la quale le nuove reclute che andrebbero a rimpinguare le fila del sempre crescente esercito dei disoccupati del settore delle quattro ruote sarebbero tra i 110 e 120 mila.
A spiegare tale cifra basterebbe un semplice confronto: un veicolo con motore endotermico è composto da 7 mila componenti, mentre uno elettrico arriva ad un massimo di 3.500/4.000; pistoni, cilindri, filtri, iniettori, testate, pompe, serbatoi (componenti delle tradizionali auto endotermiche) tenderanno a scomparire e con essi la stessa sorte toccherà all'intera filiera della componentistica che, nonostante la nostra industria automobilistica sia oramai uno sbiadito ricordo, risulta ad oggi ancora ben inserita all’interno della catena di fornitura dell’industria straniera (tedesca in particolare).
Un caso emblematico in questo senso è la vicenda di Magneti Marelli, azienda leader mondiale nella fornitura di prodotti e sistemi ad alta tecnologia per l'industria automobilistica.
Fondata nel 1994 attraverso la fusione per incorporazione del Gruppo Magneti Marelli nella Gilardini, azienda produttrice di componenti industriali, l'azienda ha fatto parte di FCA fino al 2018, anno in cui è stata venduta al colosso giapponese Calsonic Kansei, a sua volta posseduto da KKR, il gigantesco fondo d’investimento americano recentemente sotto i riflettori per l'operazione di acquisto dell'infrastruttura di rete TIM.
Nel momento della vendita da parte di FCA, la Magneti Marelli aveva 43.000 dipendenti, dei quali 10.000 in Italia; oggi i dipendenti sono saliti a 50.000, dei quali però solo 7.000 in Italia.
Ultima solo in ordine di tempo, la dichiarazione di chiusura dello stabilimento di Crevalcore (momentaneamente sospesa grazie alla levata di scudi dei dipendenti e dei sindacati), che lascerebbe a casa più di 200 lavoratori; superfluo sottolineare come questo avrebbe un impatto gravissimo per un paese che conta meno di 15.000 abitanti.
Tuttavia, la svendita di Magneti Marelli da parte del gruppo FCA non rappresenta un caso isolato, ma rientra perfettamente in una "strategia", quella sostenuta dai vari Elkann, Romiti, Marchionne etc., all'interno della quale la voce "produzione industriale" trova poco spazio.
Già, perché se è vero che c'è stata un'epoca in cui la FIAT garantiva centinaia di migliaia di posti di lavoro (tra dipendenti diretti e indotto), emergendo come uno dei principali motori dell'economia del Paese, è altrettanto vero che, dalla fine degli anni '80, la regìa delle scelte di investimento finanziario del gruppo è stata orientata verso settori diversi da quello dell’automobile, contribuendo ad avviare l'inesorabile declino al quale stiamo assistendo.
E così si è potuti passare dai poco meno di 2 milioni di auto l’anno prodotte sul finire degli anni '80 (portandoci ad essere al primo posto per vendite in Europa e secondi al mondo dopo General Motors), alle appena 476 mila del 2022.
Nella fuga degli investimenti verso altri settori (finanza, assicurazioni, banche, editoria, telecomunicazioni etc.) un - si fa per dire - grande ruolo lo hanno avuto anche le politiche dei governi che si sono alternati al potere.
In particolare, la stagione delle privatizzazioni e liberalizzazioni, ha dato un formidabile contributo a questo processo, consentendo ad industriali incapaci di competere in modo efficace nel mercato globale la possibilità di dirigersi su mercati a remunerazione più sicura e rischio sostanzialmente nullo, quali quelli delle imprese di pubblica utilità.
Per capire meglio ciò di cui stiamo parlando, facciamo un piccolo passo indietro e andiamo a fare uno schizzo di quale fosse il modello economico italiano prima degli anni '90.
Prima della fase di liberalizzazioni e privatizzazioni, in Italia vigeva un sistema economico misto, in cui lo Stato era proprietario di gran parte del settore bancario (3/4) e circa di 1/3 delle 50 più grandi aziende di proprietà pubblica (o public utilities).
In particolare, tre grandi holding detenevano le aziende pubbliche italiane: ENI, IRI e EFIM.
Le infrastrutture, i servizi pubblici, la manifattura, l’energia, le banche e le assicurazioni erano in buona parte di proprietà statale.
Importante sottolineare che le imprese pubbliche, a differenza di quelle private, non nascono unicamente come votate al profitto, ma possiedono anche finalità di tipo sociale e sono, di conseguenza, portate ad operare al fine di erogare e garantire servizi ai cittadini laddove il mercato non riesce a farlo.
Ebbene, con l'avvento degli anni '90 e delle privatizzazioni, abbiamo assistito a un repentino passaggio nel settore delle utility pubbliche da situazioni di monopolio pubblico a oligopoli o addirittura monopoli privati. Siamo passati insomma da un sistema proiettato a garantire il massimo benessere ai cittadini a uno strutturalmente vocato al profitto e alla massimizzazione degli utili.
Ecco. È in questo contesto che FIAT iniziò a trasformarsi in una vera e propria holding finaniziaria che, ripudiando paradossalmente la centralità dell’auto, dirottava gli investimenti in una miriade di settori un tempo appannaggio del pubblico, capaci, per loro stessa natura, di garantire guadagni sicuri a fronte di rischi prossimi allo zero. Un esempio su tutti, l'acquisizione (insieme alla francese EdF) di Edison, all'epoca il secondo produttore di energia elettrica in Italia.
Da qui un duplice nefasto risultato: la creazione di oligopolisti privati nell’erogazione di servizi di pubblica utilità (Benetton con Autostrade, Pirellli con Telecom, giusto per fare due esempi) e la distruzione del tessuto industriale del nostro Paese.
Infatti, il progressivo focus sulla speculazione finanziaria ha spostato l'attenzione dalle attività produttive e dalla creazione di valore a lungo termine verso il profitto a breve termine, portando ad una mancanza di investimenti in ricerca, che sarebbero stati invece fondamentali per lo sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie avanzate.
Gli effetti di questa scelta non hanno tardato a manifestarsi.
Gli anni '90 hanno segnato, infatti, per FIAT (e con essa per tutta l'industria automobilistica del Paese) l'inizio del triste declino, con una perdita di posizioni sia sul mercato interno che su quello europeo, mentre concorrenti come Ford, Renault, Peugeot e Volkswagen miglioravano le loro.
Nessuna meraviglia, se si pensa al fatto che dal 1988 al 1993 la FIAT non aveva prodotto alcun nuovo modello.
A peggiorare la situazione, si aggiunse nel 1993 lo smantellamento delle ultime barriere alla circolazione di merci, persone e capitali nella neonata Unione Europea. Il che permise a Fiat di dare il via a una stagione di delocalizzazioni selvagge.
Proprio mentre il governo varava gli ennesimi incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto (incentivi pubblici, che hanno ritardato e occultato la crisi), la FIAT, di fatto, spostava produzioni all’estero, con il risultato che nel 2001 il 66% del fatturato era realizzato all’estero (nel 1990 era il 44%); più del 50% della forza-lavoro operava fuori d’Italia (nel 1990 era il 22%); e all’estero era fabbricato il 47% delle macchine prodotte (nel 1990 era il 17%).
Un vero e proprio tradimento da parte degli Agnelli, anche e soprattutto considerando l'enorme mole di sussidi statali ricevuti da FIAT nel corso degli anni.
Secondo una analisi di Federcontribuenti, dal 1975 la società «ha ottenuto dallo Stato italiano l’incredibile somma di 220 miliardi di euro tra varie casse integrazioni, prepensionamenti, rottamazioni, nuovi stabilimenti in gran parte finanziati con risorse pubbliche e contributi statali sotto varia forma».
Si pensi che, solo durante il periodo pandemico è stata concessa una linea di credito garantita di circa 6,3 miliardi.
Aiuti di Stato elargiti anche per la realizzazione dei ben 7 piani strategici presentati nell'epoca Marchionne, dal 2005 al 2014, che puntavano ad una produzione di 3,5 milioni di auto che giustificasse le delocalizzazioni all'estero; inutile dire che nessuno dei suddetti obbiettivi sia stato raggiunto. Una valanga di soldi pubblici, dunque, utili soltanto - come abbiamo visto - a gonfiare le tasche degli azionisti, a discapito della collettività.
E non possiamo tacere su un altro fatale aspetto di quella che probabilmente è stata l’unica strategia perseguita con coerenza dalla FIAT, se non altro a partire dal 1980, ovvero la compressione del costo del lavoro.
E come si ottiene la compressione del costo del lavoro?
Semplice, attraverso salari tra i più bassi d’Europa nel settore ed un uso spinto della cosiddetta "flessibilità", licenziando e mettendo in cassa integrazione lavoratori assunti a tempo indeterminato, per sostituirli con il lavoro straordinario, con l’utilizzo di lavoratori precari e sottopagati e con l’esternalizzazione di parti sempre più importanti del processo produttivo.
Un grave errore che ha portato l'azienda ad un mancato sviluppo di una strategia industriale di ampio respiro, nell'illusione di poter sostenere la competizione in questo modo.
Fatalmente, come facilmente prevedibile, ciò non è accaduto e quello che possiamo osservare oggi non è altro che il prodotto di un modus operandi molto in voga di questi tempi: la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili.
Gravissime le colpe di uno Stato che non ha saputo - e forse voluto - contrastare in modo deciso ed efficace tale deriva.
Uno Stato che si è dimostrato assente in materia di politica industriale e del lavoro, incapace di offrire sviluppo e prestigio alla propria cittadinanza perché intento solo e soltanto a preservare gli interessi di una certa élite, lasciando peraltro il sostanziale monopolio del settore ad una singola famiglia (gli Agnelli).
Una politica che non ha mostrato alcuno sforzo per tentare di inserirsi nei nuovi trend di produzione ed innovazione e che si è palesato in tutta la sua debolezza e deresponsabilizzazione rispetto al ruolo che gli sarebbe dovuto competere.
Ad esempio, se in occasione del salvataggio di Peugeot la Francia aveva preteso di accedere all'azionariato e di partecipare nelle scelte direttive della società, lo Stato italiano, nonostante tutti i miliardi spesi in sussidi ed aiuti di vario tipo, non ha mai posseduto nemmeno una singola quota di FIAT.
Una FIAT che, come abbiamo visto, nel frattempo guardava sempre più all'estero e abbandonava gradualmente le sorti del nostro Paese.
Come quando nel 2009 l'azienda operava l'acquisizione di Chrysler negli Stati Uniti e nel 2014 avviava la fusione con la stessa, dando vita a FCA.
FCA che, dopo la quotazione in borsa del 2014, nel 2019 sarebbe, infine, convolata a nozze con la francese PSA per dare alla luce l'attuale Stellantis.
E con la nascita di Stellantis possiamo celebrare il funerale dell'industria automobilistica italiana.
Sì, perché se è vero che gli azionisti di Fca possiedono il 14,4% delle quote e quelli transalpini il 13,4% (famiglia Peugeot al 7,2% ed Eliseo, tramite Bpifranceal, 6,2%), la partecipazione della Francia, pesa, nei fatti, più di quella italiana.
Infatti, i francesi possiedono sia la maggioranza del Consiglio d'amministrazione sia il potere di nomina dell'amministratore delegato (attualmente tale Carlos Tavares).
In aggiunta a questo, la garanzia data dalla partecipazione all'azionariato della società da parte di Parigi funge da tutela agli stabilimenti d'Oltralpe, esponendo invece a maggior rischio di smantellamento quelli italiani (cosa che, puntualmente, si sta verificando).
E così, mentre la nostra industria delle quattro ruote viene sempre più vilipesa e spezzettata tra svendite e cessioni (come i casi Teksid, Comau, Iveco, Magneti Marelli etc.), chiusure di stabilimenti (Termini Imerese, Crevalcore, Grugliasco etc.), dichiarazioni di esuberi (come nel recente caso della Bosh di Bari) e fusioni che tutto sono fuorché alla pari (come quella della suddetta Stellantis), a rimetterci è sempre la collettività.
Una collettività privata del lavoro, dei diritti sociali e dell'identità che un simbolo come quello che un tempo era la nostra invidiata industria automobilistica significa per ognuno di noi.
Una collettività che vede nello smantellamento del settore a quattro ruote, una minaccia diretta a quello che, a tutti gli effetti, rappresenta per la nostra comunità un vero e proprio presidio di libertà e democrazia.
Essendo noi cittadini di un Paese con una conformazione orografica particolarmente eterogenea (fatta di montagne, colline, valli e pianure), dove quasi la metà della popolazione vive in piccoli centri urbani e rurali, risulta fondamentale la presenza di un sistema infrastrutturale efficace e ben costituito, dove l'auto si possa inserire, non solo come mezzo utile a tutelare la libertà di movimento di ogni individuo ma anche come presidio garante di democrazia, fungendo da collante per un tessuto sociale altrimenti tendente all'isolamento.
In Italia, più che altrove, l’automobile non ha, quindi, rappresentato soltanto un mezzo di locomozione e un prodotto della tecnologia capace di rivoluzionare il trasporto terrestre, ma ha giocato un ruolo da protagonista nella trasformazione sociale del Paese, contribuendo ad arricchire gli italiani di libertà, indipendenza, benessere e progresso.
L'automobile insomma ha alimentato un sogno, una visione densa di forza, passione ed entusiasmo capace di proiettarci verso il futuro.
Per riprenderci tutto questo è necessaria una politica all'altezza del proprio compito, che abbia il coraggio di ricominciare a scommettere sul genio italiano attraverso un massiccio programma di investimenti pubblici.
Si deve mirare ai settori ad alta intensità di innovazione, in grado di generare posti di lavoro e valore aggiunto, concentrandosi sulle filiere strategiche e sulle tecnologie abilitanti.
Grazie al volano offerto dal settore pubblico, le piccole e medie imprese potranno tornare a farsi fulcro dello sviluppo, come hanno già dimostrato di saper fare nel corso del secondo '900.
Per troppo tempo in Italia lo Stato è venuto meno ai propri doveri nei confronti dei cittadini, riducendosi ad aguzzino pronto a farsi vivo solo e soltanto quando c'è qualcosa da pretendere. E non ci si può neppure stupire più di tanto: le forze politiche che lo hanno animato nel corso degli ultimi decenni sono quel che sono. Frotte di "influencer" pusillanimi, bravissimi a mentire in campagna elettorale ma completamente incapaci di concepire una strategia per l'Italia. Tutte quante, dalla prima all'ultima, subalterne (culturalmente prima ancora che economicamente) a logiche e interessi che risiedono al di fuori dai nostri confini.
Per questo è nostro dovere ricostruire una classe dirigente che sappia animare uno Stato degno di questo nome, che non si presenti alle persone come un Moloch fatto di cartelle esattoriali e incombenze burocratiche, ma che sappia spingere lo sviluppo economico in modo attivo e concreto, anche attraverso la creazione di una rete di imprese statali. Imprese che non solo creeranno posti di lavoro, ma che contestualmente offriranno una rampa di lancio per tutto il settore privato.
Per ricominciare a fare quel che sappiamo fare, insomma, ci occorre uno Stato che non faccia altro che il suo mestiere. E cioè metterci nelle condizioni adatte per liberare tutto lo straordinario potenziale che noi italiani siamo in grado di esprimere.
Citando Giorgetto Giugiaro, uno dei più grandi disegnatori d'auto che l'Italia (e dunque il mondo) abbia mai avuto:
"Pensare "italiano" significa attingere a una cultura che è dentro di noi, nei difetti, nella sua originalità e nella sua storia [...] Il nostro è un modo di vedere molto personale, sintesi di un dna che viene da lontano e che fa sì che quello che si produce sia caratterizzato da una connotazione particolare. Il prodotto italiano si apprezza per l'approfondimento che reca in sé, come espressione di un gusto raffinato [...] La voglia di far bene, la voglia di andare a fondo al di là delle necessità, di trovare una connotazione un po' unica. Ecco che cosa rappresenta per me il modo di lavorare e pensare all'italiana."
Ecco. Noi, forse più di chiunque altro, siamo stati tutto questo. È tempo di ritornare ad esserlo.