Nel 1871 Fëdor Dostoevskij iniziò la pubblicazione di uno dei suoi capolavori immortali, "I demòni” (o “Gli indemoniati”). Ispirato da un fatto di cronaca, l'omicidio di uno studente universitario ad opera del rivoluzionario Neçaev e di tre suoi complici, lo scrittore decise di indagare il mondo della gioventù nichilista russa, che in quegli anni era in preda ad un esteso fermento rivoluzionario, e il suo rapporto con la vecchia intellighenzia progressista dell'epoca. Con la straordinaria finezza psicologica di cui era maestro, ne dipinse un quadro, oltre che di immenso spessore letterario, di sorprendente attualità, che ci consente qualche utile riflessione.
La scena è quella della Russia degli anni '70 del diciannovesimo secolo, un Paese piuttosto arretrato rispetto all'Europa occidentale, ancora poco industrializzato e legato al latifondo agricolo, in cui, addirittura, solo da pochissimo tempo è stata formalmente abolita la servitù della gleba, su impulso della fazione occidentalista e progressista dell'élite russa. Questa intellighenzia, però, oltre che dagli intenti umanitari, appare mossa anche da uno strutturale complesso di inferiorità verso il resto dell'Europa, mostrandosi costantemente preoccupata di rimanere al passo con le "nuove idee" di trasformazione sociale che scuotono il continente. Benché ancora attenta al decoro e alle forme esteriori, appare ormai disillusa riguardo alle istituzioni fondanti della società russa, come la famiglia, l'onore e, soprattutto, la fede religiosa, anche se questo disincanto risulta l'adesione a una "moda colta" che una reale convinzione. All'ombra di questa élite, cresce una giovane generazione molto più radicale, che disprezza apertamente la moderazione dei vecchi liberali ed è animata da ben altri sentimenti: "Qui c'è un odio animalesco e senza fine verso la Russia, che è penetrato nel loro organismo. E qui non c'è nessuna lacrima, invisibile al mondo, sotto il loro visibile riso!" afferma Šàtov, il rivoluzionario pentito.
Nel primo capitolo, ci viene presentato uno scorcio delle discussioni che impegnano questa gioventù e dei suoi atteggiamenti, che a chi scrive ricordano molto il wokism anglosassone contemporaneo: “Si discuteva dell'abolizione della censura e del segno forte [carattere dell'alfabeto cirillico, n.d.r.], si parlava della sostituzione dell'alfabeto cirillico con quello latino, [...] dell'utilità di uno smembramento della Russia [...], della riforma contadina e dei proclami, dell'abolizione dell'eredità, della famiglia, dei figli, dei preti, dei diritti delle donne […]”. E quando il vecchio liberale Stepàn Verchovenskij, che riconosce l'inutilità della parola “patria" e la dannosità della religione, osa dichiarare che “gli stivali valevano meno di Puškin, e anche di molto”, cioè contraddice lo svilimento del valore del bello rispetto all'utile, viene fischiato. Non è difficile trovare qualcosa di familiare nella messa in discussione di tutte le istituzioni sociali, nelle proposte di manipolazione a tavolino del linguaggio e nella sottomissione del giudizio estetico alla politica: sono tutti elementi che ricorrono anche nel nostro presente. Poco dopo l’incidente con Stepàn Verchovenskij, alcuni di questi giovani intellettuali si presentano dalla sua protettrice, Varvàra Stavrogina, a comunicarle le loro decisioni sulla rivista di critica letteraria che lei sta valutando di fondare, mostrando anche l'assoluta certezza di costoro di rappresentare un'autorità e un'avanguardia, che ha il pieno diritto di disporre degli altri come meglio crede. È proprio questa feroce assertività ad affascinare i vecchi progressisti, che temono e ammirano questa gioventù per "questo coraggio, finora inaudito, di guardare la verità direttamente in faccia", come dice il vecchio scrittore Karmazinov, parodia di Turgènev. Essi cercano in tutti i modi di ingraziarsela, ritenendosi capaci di guidarli e di moderarne gli eccessi ma ricevendone in cambio, di fatto, solo insolenze.
Tra questi giovani nichilisti (cioè distruttori di ogni cosa) e, per Dostoevskij, soprattutto atei, spiccano tre grandi figure: il propagandista manipolatore Pëtr Verchovenskij, figlio di Stepàn, che imbastisce una cellula terroristica (dai fini piuttosto mal definiti) sotto il naso delle autorità, sfruttandone appieno il desiderio di accreditarsi presso la gioventù; il “mistico” Aleksej Kirillov, che, cercando la libertà assoluta, conclude di poterla trovare soltanto nel suicidio; il luciferino Nikolaj Stavrogin, figlio di Varvàra e studente di Stepàn Verchovenskij, che, per noia e per compiacere il proprio orgoglio smisurato, sperimenta le azioni più abiette come anche i propositi più elevati. Questi è forse l’unico, tra i nichilisti, ad essere un personaggio integralmente tragico, che sfugge alla feroce satira che percorre tutto il romanzo, mentre il male che promana dagli altri appare sempre accompagnato dall'ottusità. L'analisi dettagliata di queste tre figure è materia di una vasta critica letteraria, che ora però ci porterebbe troppo lontani dal nostro tema principale, ovvero, le conseguenze logiche del pensiero nichilista.
È nel capitolo 7 del libro secondo che Dostoevskij mostra pienamente queste conseguenze, durante l'assemblea dei seguaci di Pëtr Verchovenskij. Tale momento rappresenta forse l'apice satirico del romanzo ed è un episodio di straordinaria comicità, nonché, purtroppo, una rappresentazione realistica della vita concreta di molte piccole e litigiose realtà politiche, come si potrà rendere conto chiunque ne abbia esperienza (come ne aveva lo stesso autore, anch’egli di tendenze rivoluzionarie in gioventù). Durante questa turbolenta riunione di nichilisti, che sono per lo più mossi dal puro e semplice odio per tutti i valori della società russa, ritenuti semplici
instrumenta regni del potere zarista, prende la parola il serissimo Šigalëv, l'unico che si pone il problema dell'organizzazione della società futura una volta distrutti i vecchi pilastri su cui si regge quella presente. Egli dichiara: “Avendo consacrato le mie energie allo studio della questione della struttura sociale della futura società, con la quale sarà sostituita la presente, sono giunto alla convinzione che tutti i costruttori di sistemi sociali [...] sono stati dei sognatori, dei favolisti [...] Mi sono imbrogliato nei dati, e la mia conclusione è in diretta contrapposizione con l'idea iniziale, dalla quale sono partito. Partendo dalla libertà illimitata, concludo con un illimitato dispotismo. Aggiungerò, però, che all'infuori della mia soluzione della formula sociale, non può essercene un’altra.” Dopodiché, propone di discutere dettagliatamente il proprio sistema nel corso di dieci comode serate.
Al di là dell'effetto caricaturale, qui Dostoevskij segnala quale sia l'inevitabile approdo dello svilimento di quei valori, come la fede religiosa, la famiglia, l'onore, la bellezza, la virtù, che i nichilisti disprezzano come meri mezzi del potere: il trionfo del criterio del più forte, ovvero il dispotismo illimitato. Se infatti l'impegno dei rivoluzionari “per scuotere sistematicamente le basi, per dissolvere sistematicamente la società e tutti i principi, per scoraggiare tutti e creare lo scompiglio” fosse coronato dal successo, cos’altro rimarrebbe a regolare i rapporti umani, se non il puro esercizio del potere, la mera realizzazione dei rapporti di forza? Secondo i rivoluzionari dostoevskijani (ma non sembra troppo distante dalla realtà estendere questo pensiero a molti rivoluzionari storici) sarebbe “la ragione” o “la scienza”, cioè, fondamentalmente, un criterio razionale di utilità, che loro stessi incarnano e sapranno imporre all'organizzazione sociale. Ma dietro a questa "razionalità" è facile scorgere, appunto, il semplice dispotismo dei suoi detentori, che, in aggiunta, non troverà più ostacoli in quei principi extra-politici condivisi che saranno stati preventivamente distrutti, mirando quindi a farsi padrone della totalità della realtà. In una parola, si farà totalitarismo, anche se non necessariamente con la forma auspicata dai rivoluzionari, che sul piano della pura forza potrebbero essere sconfitti da un’altra “razionalità” più efficiente, come quella stalinista o quella nazionalsocialista.
Significativamente, taluni aspetti del modello di Šigalëv ricordano alcuni dei peggiori incubi del Novecento: “Approva lo spionaggio. Ogni membro della società vigila l'altro ed è obbligato alla delazione. Ognuno appartiene a tutti e tutti appartengono a ognuno. Tutti sono schiavi e nella schiavitù sono uguali. Nei casi estremi, c'è la calunnia e l'omicidio. […] Gli uomini di doti superiori non possono non essere despoti […] perciò vengono scacciati e giustiziati”. Viene in mente, ad esempio, il regime degli Khmer rossi in Cambogia. Altri aspetti, invece, sembrano adatti a descrivere il nostro presente: “Egli propone […] la divisione dell’umanità in due parti diseguali. Una decima parte riceve la libertà personale e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi invece devono perdere la loro personalità, trasformarsi in un gregge e […] raggiungere l’innocenza primitiva”. E come realizzare ciò? “La sete d'istruzione è già una sete aristocratica. Non appena c’è la famiglia o l’amore, ecco subito anche il desiderio della proprietà. Noi sradicheremo il desiderio, diffonderemo l’ubriachezza, i pettegolezzi, le denunce; scateneremo una corruzione inaudita, spegneremo ogni genio ancora in fasce. […] Ma occorrono anche delle convulsioni; a questo penseremo noi dirigenti.[…]” spiega Verchovenskij, che non disprezza le idee di Šigalëv, pur essendo interessato soprattutto alla distruzione.
L'affinità col presente non è casuale, dato che, a parere di chi scrive, il nichilismo ha infettato molte delle agenzie che forgiano la visione del mondo della nostra società (ad esempio, la scuola), spingendo la dissoluzione a lambire non già soltanto le strutture sociali, ma perfino quelle interne alla persona (si pensi, ad esempio, ai discorsi sull’“identità di genere”), lasciando campo libero al dispotismo “razionale” incarnato oggi dai famigerati “tecnici”. Essi sono i detentori di quella che Šàtov chiama, con una fortunata espressione, “semiscienza”, descrivendola come: “Un despota che ha i suoi sacerdoti e i suoi schiavi, un despota, dinanzi al quale tutti si sono inchinati con amore e con una superstizione fino ad ora inconcepibile, dinanzi al quale la stessa scienza trema e gli indulge vergognosamente”. Oggigiorno, tra l’altro, i nichilisti non sembrano nemmeno, in larga parte, essere particolarmente interessati a sfruttare la distruzione del tessuto sociale per ribaltare i rapporti di forza socio-economici e disarcionare un potere affermato, come speravano i rivoluzionari di un tempo, ma si fanno tranquillamente strumento di un potere, quello del grande capitale atlantico, che è già dominante e mira a rimuovere tutto ciò che argina la "razionalità" del mercato e delle decisioni tecniche, e la cui tirannia si fa sempre più evidente, come ben sa chi ha sperimentato le decisioni “razionali” dei tecnici sulla propria pelle negli ultimi anni.
Per contrastare questo potere straripante serve porre rinnovata attenzione su tutto ciò che nelle nostre esistenze costituisce un fine e non un mezzo funzionale a qualcos'altro. Sui fini ultimi, sulle fonti di senso che non possono ridursi a strumenti del potere e che rischiano di essere oscurate dalla deriva nichilista. E non si tratta di rimetterle al centro per difenderle: essendo forti di una Verità che va realmente oltre la disponibilità del potere sono perfettamente in grado di difendersi da sé, anche con grande violenza, con tutta la forza della Verità. Infatti, per la loro stessa natura, attaccarle o ignorarle rende miserabili le esistenze di persone e collettività. Si tratta invece di riconoscerle per offrire all'azione politica sia limiti che ispirazioni ben più potenti del mero calcolo utilitaristico. Occorre uno Stato umile, che sia rispettoso delle fonti di senso e non pretenda di sottometterle alla propria legge, riconoscendovi una dimensione ad esso indisponibile. Uno Stato, però, che sia anche forte, affinché possa esser efficace nell'esercizio della funzione che gli è propria, ovvero quella di indicare le fonti di senso e garantire a tutti la possibilità di accedervi, anche dotandosi degli strumenti necessari (ad esempio, quelli di politica economica) per garantire una ragionevole libertà dai bisogni materiali basilari.
Solo dal suo rapporto con le fonti di senso una collettività può trarre la motivazione necessaria per darsi degli scopi e prosperare, ma è oltre le possibilità dello Stato sciogliere i dubbi esistenziali di Šàtov e farlo passare dal suo incerto "Io... io crederò in Dio" a una fede reale. Può soltanto, umilmente, riconoscere il valore di questa sua ricerca e incoraggiarla. E, più concretamente, impedire che nel frattempo venga assassinato da degli “indemoniati”.