Er veicolo der messaggio

Perché le serie televisive non sono prodotti artistici

Perché le serie televisive non sono prodotti artistici

Lunedì 10 Ottobre 2022



È uscita la nuova serie Amazog su Er signore dell’anelli. Ora, è evidente che l’unica cosa dignitosa da fare è non guardarla, al pari di tutte le altre. Perciò invito tutti i simpatizzanti dell’opera tolkeniana a limitarsi a ignorare il prodotto dell’ultimo sforzo del colosso dei vibratori per corrispondenza. Il caso specifico mi dà nondimeno la possibilità di analizzare brevissimamente il fenomeno delle serie, dei film ed in generale dei prodotti culturali woke (nb. “culturali” non va tra virgolette: è il caso che cominciate a capire che oggi la cultura è questa).

Cominciamo dal commentare il tweet citato in esergo: in esso si esprime un’opinione sovente utilizzata in campo progressista per mostrare la legittimità del costante stupro degli autori a cui tutti noi teniamo; la sua analisi avrà qualche rilievo e per questo l’ho scelto.

Ciò che l’imbecille non sa è che realtà e immaginazione non sono una coppia antitetica, come invece realtà e illusione. Mi spiego. Le figure presenti nell’opera di Tolkien naturalmente sono fantastiche: è stato necessario lo sforzo immaginativo dell’autore perché potessero predere forma ed è ognora richiesto il nostro impegno perché si possa continuare a rappresentarsele nella finzione. Questo loro carattere figurato non le rende tuttavia evanescenti o volatili, ma anzi i loro tratti sono bene identificabili: Aragorn è un ramingo che fugge momentaneamente dal suo destino, Boromir è il figlio del reggente di Gondor, gli hobbit sono creature allegre e dallo spirito goliardico, e… gli elfi non sono neri.

L’imbecille potrebbe nondimeno obbiettare che quello che ha detto l’autore non conta. Prendere in esame questa risposta ci consente anche di criticare una delle più frequenti prese di posizione in chiave anti-imbecille. Diciamolo chiaramente: per rispondere all’imbecille non ha senso pretendere che si rispettino i fan, e, in ultimo, nemmeno l’autore come tale. Perché? Dire che si deve rispettare il fandom costituirebbe un’enorme zappata sui piedi: anzitutto perché dallo stravolgimento di suggestioni altrui possono derivare opere genuinamente interessanti (come spesso il cinema ha dimostrato), e, in secondo luogo, perché il motivo per cui l’imbecille ha torto è ben più profondo. Ciò nei confronti di cui ha senso protestare non è la mancanza di rispetto verso l’autore, ma nei confronti della verità che questi ha inteso rappresentare nella sua opera.

Troviamo qui un senso ulteriore in cui parlare di verità, scendendo ancora più nel profondo, dopo aver già capito che immaginazione e realtà non sono necessariamente in contrapposizione. Non solo il personaggio immaginato presenta una stabilità e una descrivibilità che mancano alla mera illusione, con cui quindi il prodotto dell’immaginazione non va confuso, ma la vicenda che tale personaggio vive – la storia in cui si trova immerso e che ci viene raccontata – può essere il nucleo artisticamente modellato di una realtà comune a quella che effettivamente viviamo. Realtà e immaginazione allora condividono un medesimo terreno che si mostra essere della massima rilevanza per la vita umana e per il tramandarsi di ciò che da essa si può apprendere: uno dei compiti del “fabbricante di favole” tolkeniano è appunto quello di offrirci un nucleo veritativo – la realtà della nostra stessa realtà – sotto le spoglie del racconto fantastico. La fiaba, così come l’opera d’arte in generale, è fatta per parlarci di noi stessi e del nostro mondo, ancor prima che si sia scelto se si tratti d’allegorie o metafore di questo o di quell’evento storicamente accaduto.

Ora, l’estetica woke rigetta totalmente gli assunti appena citati sul ruolo di immaginazione e fantasia, come l’imbecille riesce bene ad esprimere. Vediamo però in che modo ci prova (naturalmente tramite un’analisi che, per quanto banale, l’imbecille non potrebbe mai compiere). Serie, film e tutto il complesso florilegio di opere scadenti che l’odierna industria culturale ci mette nel piatto sembrano dirci all’unisono e costantemente, peraltro con la voce della mia coinquilina femminista (e pure romana), che in ultimo nun conta la storia, conta er messaggio che deve veicolà.

Ora, un buon modo per distinguere fra arte e propaganda è proprio questo. Nella propaganda si ha un rapporto meccanico tra contenuto e forma: questo piega quella ai suoi scopi, rendendola un mezzo contingente al suo servizio; si fa propaganda nelle serie televisive sul Signore degli anelli come la si può fare nelle pubblicità per le gomme da masticare o in qualsiasi altra sfera della dimensione pubblica e privata. Nel nostro caso, tutti noi già sappiamo quali siano i contenuti da veicolà: l’inclusività, l’antirazzismo, la lotta di genere ecc. Si tratta appunto di un contenuto astratto, reiterabile in qualsiasi tipo di storia in modo equivalente. Se pensati per essere meccanicamente separati, contenuto e forma si presentano come due astratti da giustapporre in maniera altrettanto meccanica: l’uno, sempre il solito, consterà di parole d’ordine e messaggi tanto incontestabili quanto non sviluppati, mentre l’altra sarà una storia ridotta a guscio vuoto, puro storytelling, esoscheletro narrativo al più (quando va bene) farcito di virtuosismi di sceneggiatura.

La propaganda ottiene così un effetto paradossale: proprio nel porre al centro la sua pretesa pedagogica, la storia si sfilaccia e lascia intravedere dietro la sua trama la rigida mano del potere. Trattare l’opera d’arte come un veicolo per un qualche messaggio è il miglior modo per mostrare la propria mancanza di rispetto verso il primo e la deficitaria riflessione sul secondo. Al solito, c’è però qualcosa di caratteristico nella specificità della propaganda woke, e ciò deriva, appunto, non dalla ostentata centralità del suo contenuto, quanto precisamente dalla reiterata insistenza sul valore educativo dell’opera d’arte come tale. In altre parole, laddove usualmente la propaganda si limita a sfruttare l’arte per quanto le riesce, qui ci si spinge a rivendicare ideologicamente la stessa legittimità di tale operazione. Perché? Perché il solo e unico contenuto è proprio che voi siete ignoranti e ve dovemo insegnà noi. In altre parole, ciò che usualmente è la mera forma della propaganda qui diviene la fonte stessa del suo contenuto. Inclusività, antirazzismo, parità di genere ecc nel modo in cui li vediamo espressi, in effetti, significano solo questo: il contenuto non è un “devi”, ma solo un negativo “non devi”, cioè la necessità che non si seguano le proprie inclinazioni (bigotte e fasciste) e il proprio sguardo sul reale (non è lì che risiede la verità o forse la verità è già fascista come tale).

 

Ora, le parole che spero stiate pensando sono merda, merda, merda. Questa è merda pura.

Esatto, lo è. Ma nel nostro ritorno dal mondo della merda possiamo portarci a casa una verità importante.

La domanda da porsi è: come distinguersi davvero da questo schifo?

Il vero contenuto è quello che vive nella forma della storia a cui appartiene. Il suo sviluppo è immanente alla narrazione, e noi, nel raccontare, creiamo tanto quanto descriviamo, diamo figura tanto quanto cerchiamo di osservarla. Qui risiede anche il principio di ogni vero insegnamento tratto dall’arte, entro una visione dell’opera che è in grado di tenere assieme il gusto romantico per l’esperienza estetica come tale e la saggezza classica che vi vede il mezzo caratteristico di una buona pedagogia: cogliere l’eidos del reale che rappresentiamo per poter far ritorno dal mondo immaginato al mondo in cui viviamo con in pugno la realtà della nostra realtà, cioè l’accresciuta capacità di distinguere in seno ad essa ciò che è davvero reale e ciò che non lo è. Sta poi a voi cercare di capire se tale reale è ciò che da solo resiste alle ingiurie dei tempi o semplicemente ciò per cui vale la pena combattere.

 

Sia questo l’insegnamento che chi vuol fare cultura dalla nostra parte ha da portarsi dietro, dopo il soggiorno nel mondo della cultura contemporanea.

 

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