È da pochi giorni nelle sale la seconda parte di Dune, l’acclamato adattamento di Denis Villeneuve della celebre saga fantascientifica di Frank Herbert. L’autore, profeticamente, mise al centro dello sviluppo narrativo alcuni temi oggi decisivi. Pensiamo al rapporto tra uomo e macchina - risolto, nella lore di Dune, con la messa al bando dell’intelligenza artificiale e la sua sostituzione con una casta di calcolatori umani, i Mentat. Non dimentichiamo il ruolo della religione nell’agone politico, rappresentato in particolare con il fanatico culto messianico praticato dai Fremen, i quali, in quanto indigeni di un pianeta desertico conteso fra le varie potenze per le sue risorse naturali, ci ricordano esplicitamente la drammatica situazione e le pretese di riscatto dei popoli arabi.
Tra i tanti aspetti che varrebbe la pena approfondire, ve ne sono però due, intimamente legati, che appaiono particolarmente interessanti per le loro implicazioni attuali: mi riferisco alla geopolitica e all’ecologia.
Partiamo dal più ovvio, la geopolitica. Il sistema economico-politico di Dune è un curioso e intrigante miscuglio tra feudalesimo e plutocrazia. Le grandi casate, compresa quella imperiale, controllano non solo interi sistemi planetari, ma anche quote dell’azienda che ha il monopolio del commercio interplanetario. I viaggi interplanetari, indispensabili alla tenuta del sistema, si basano su una risorsa - la Spezia - presente solo sul pianeta desertico Arrakis, patria dei Fremen. Se il riferimento al Vicino Oriente e al petrolio è ovvio, non bisogna dimenticare che il romanzo è stato scritto ben prima della crisi petrolifera. Gli intrighi fra le casate sono fomentati e mediati da alcune caste tecnico-religiose (i già nominati Mentat, le enigmatiche “suore-prostitute” Bene Gesserit) che in quanto a malevole astuzia farebbero impallidire i tecnocrati europei e i keynote speaker del WEF.
Come sopravvivere alle faide tra casate e ai complotti interplanetari? Il duca Leto, padre del giovane protagonista, non ha dubbi: è necessario radicarsi in un pianeta e sfruttarne le caratteristiche. Costretto a trasferirsi dal pianeta acquatico Caladan - di cui la sua dinastia sa sfruttare da secoli la conformazione oceanica, con la sua flotta navale e aerea e una manciata di “atomiche di famiglia” - al pianeta desertico Arrakis, il duca, fuori dal suo elemento e quasi sperso in un mondo di cui ancora fatica a cogliere i fondamentali strategici, soccombe all’invasione di una casata rivale, lasciando il figlio Paul esule tra gli indigeni Fremen.
Il giovane Paul, novello Lawrence d’Arabia, apprende i costumi dei Fremen - fino a diventare uno di loro - e scopre un’intera civiltà capace di sopravvivere in regioni unanimemente ritenute incompatibili con la vita, sfruttando al meglio ogni goccia d’acqua disponibile e domando i temibili vermi delle sabbie, che costituiscono un formidabile mezzo di trasporto ma anche una potente arma. È questo il “desert power” che suo padre aveva avuto soltanto il tempo di sognare. Preso il controllo politico-militare dei Fremen, Paul riesce a sconfiggere facilmente le famiglie rivali e lo stesso Imperatore spostando il conflitto su Arrakis, mossa che gli conferisce un decisivo vantaggio strategico. Lo stesso deserto che era stato una trappola per la sua famiglia diventa ora l’elemento congeniale per la sua vendetta.
Se i Fremen hanno imparato ad adattarsi alle proibitive condizioni del deserto e a trasformarle - con la guida di Paul - in un fattore militarmente decisivo, sarebbe tragicamente sbagliato considerarli fanatici del deserto. Il loro fanatismo, ammesso che il termine sia lecito, li conduce semmai nella direzione opposta: il loro secolare sogno è trasformare la distesa di sabbia rovente in cui vivono in un pianeta verde e blu. A tale scopo, essi stanno accumulando enormi riserve di acqua e costruendo stazioni scientifiche per lo studio di una strategia di “terraforming”, consacrando un’enorme quantità di energia alla causa. Qui veniamo al secondo aspetto intrigante della saga di Dune: l’ecologia.
Qui mi rendo conto di toccare un nervo scoperto. Se ormai la sola menzione di questa parola provoca in voi un certo senso di nausea, sappiate che siete in buona compagnia. Lo stesso Frank Herbert, parlando del suo interesse per la materia, spiegò la sua paura che l’ecologia diventasse “la prossima bandierina per i demagoghi e gli assetati di potere, pronti a lanciare una nuova crociata”. Se in Dune (nel romanzo e, per ovvi motivi, ancora più nei film) è evidente la critica allo sfruttamento a oltranza delle risorse naturali, la visione ecologica dell’opera non si ferma a tale facile denuncia. Nella concezione di Herbert, il sistema ecologico, che coincide con il pianeta stesso, è un sistema complesso che abbraccia numerosi aspetti: morfologia, clima, presenza vegetale, animale e umana. L’uomo non è, come nella vulgata odierna, una presenza mal tollerata e inquinante, ma un fattore attivo e determinante del sistema ecologico. Con umiltà e dedizione egli può trasformare il più inospitale dei pianeti in un’arca di biodiversità. Il paziente lavoro di accumulo di cisterne d’acqua da parte dei Fremen ricorda molto la costruzione delle cattedrali in Europa: chi posava la prima pietra era sicuro che non avrebbe visto il completamento dell’opera, ma lo faceva con fede in qualcosa di più grande. L’esatto opposto della pseudo-ecologia nichilista che dobbiamo sopportare oggi.
Il ruolo attivo di una società umana nella preservazione e nella trasformazione dell’intero pianeta è legato a doppio filo con la sua gestione strategica, soprattutto militare (decisiva in un mondo feudale come quello di Dune). Questa visione integrata della realtà - che rende perfettamente ragionevole che un personaggio che fino a pochi minuti prima stava coltivando con zelo delle innocenti piantine adesso imbracci un lanciafiamme o mediti un attacco nucleare - è a mio avviso una ragione fondamentale del successo del romanzo e, allo stesso tempo, un aspetto che lo rende molto distante dall’odierno modo di pensare “mainstream”. Chiunque segua questa corrente di pensiero, in effetti, non può che storcere il naso di fronte all’opera di Herbert, magari derubricandola ad accozzaglia di miti e intrighi dall’improbabile vocabolario. Lo stesso film di Villeneuve sembra talvolta farsi beffe della fiducia messianica dei Fremen, trasformando il personaggio di Stilgar (capo politico e militare dei Fremen) in una macchietta, laddove Herbert era stato forse più attento e bilanciato nella sua, pur chiarissima, critica al fanatismo e alla religione come instrumentum regni.
Se è vero che l’universo di Dune è pieno di profezie create ad arte per scopi politici, queste poi curiosamente si avverano quasi tutte. Non solo perché mettono in moto nei secoli le energie fisiche e psichiche di interi popoli, finendo con l’autoavverarsi, ma anche perché sono formulate da caste costituite da profondi conoscitori dell’animo umano, capaci di “effort at prediction”. Uscendo dalla finzione, potremmo quasi dire che le profezie di Dune si stanno avverando perché Herbert riuscì ad andare al cuore di ciò che motiva l’uomo a pensare e ad agire. In breve, in questi giorni, con la scusa dell’uscita del film al cinema, forse vale la pena riprendere in mano la sua opera per confrontarsi con la sua visione non-conformista della geopolitica e dell’ecologia. Chissà che non ne vengano fuori buone idee per riappropriarci delle nostre “dune”, ricacciando sui loro pianeti tutti gli invasori.