I tentacoli di BlackRock

I fondi d'investimento giocano un ruolo cruciale nell'egemonia americana

I fondi d'investimento giocano un ruolo cruciale nell'egemonia americana

Mercoledì 19 Giugno 2024

L’8 giugno 2024, sul Corriere della Sera, usciva un'ossequiosa intervista di Federico Fubini al CEO di BlackRock, Laurence Douglas Fink (detto Larry), lo stesso Fink che pochi giorni dopo è stato invitato a partecipare al G7 in Puglia. Come mai tanta considerazione per questo signore? Per capirlo, occorre innanzitutto capire che cosa sia Black Rock e perché sia così rilevante per le economie occidentali in questo preciso momento.

Cominciamo dalle basi: BlackRock è un fondo di investimento, un’azienda americana che si offre di gestire il denaro altrui investendolo dove ritiene sia più profittevole. Fondato nel 1988 a New York, gestisce circa 4.100 miliardi di dollari (il doppio del PIL italiano). Nel settore dei fondi d'investimento, BlackRock è certamente il numero uno. Si sente spesso parlare infatti della triade BlackRock, Vanguard e State Street, ma le attività di questi soggetti risultano talmente intrecciate che potrebbero essere quasi trattati come una singola realtà. Per dare un’idea di cosa stiamo parlando, nel 2020 queste 3 società esprimevano circa il 25% dei voti nei consigli di amministrazione di tutte le società quotate nell’indice S&P 500 (il più importante indice azionario USA, che segue l’andamento delle 500 aziende americane con maggiore capitalizzazione).

Nel corso degli anni la galassia antisistema ha parlato sempre più spesso di fondi come Black Rock, definendoli l’incarnazione dell’aristocrazia finanziaria transnazionale, i padroni universali che muovono come pedine i governanti del mondo, in special modo quelli americani che vengono dipinti semplicemente come loro braccio armato del tutto subordinato. Questa lettura, per quanto semplice e apparentemente capace di spiegare alcuni dei fenomeni a cui assistiamo, risulta in ultima analisi insoddisfacente. È necessario superare questa interpretazione economicista del mondo che ci circonda e per farlo occorre dismettere le lenti dell'analista finanziario e indossare quelle dello storico, così da prender coscienza anche del perché si sia giunti a elaborare questa visione delle cose.

Pensare gli USA come burattini manovrati dai grandi fondi infatti significa invertire causa ed effetto, scambiare mandanti ed esecutori. È un prodotto della nostra post-storicità, un'assuefazione a non considerare la dimensione strategica dei processi in favore di una dimensione esclusivamente economica. In Europa occidentale e, in particolare, in Italia tendiamo costantemente a porre l’economia al di sopra di tutto e spieghiamo ogni fatto del mondo usandone il linguaggio e le logiche, immaginandola come ultimo orizzonte. All’interno di questo paradigma, strepitosamente materialista, tutto diventa il risultato diretto della volontà dei potenti, intesi come abbienti, ricchi. Uscire da questo paradigma significa riconoscere che la volontà delle élite non plasma la direzione della collettività, ma al più la declina.

Applichiamo quanto appena detto al caso Black Rock: si tratta di un fondo americano che, al pari degli altri player della globalizzazione, non potrebbe esistere senza quell’intelaiatura che la potenza egemone gli fornisce. E a New York ne sono perfettamente consapevoli. Il rapporto fra i fondi e lo stato USA è dunque strettissimo e, nonostante ogni tanto traspaiano i segni di una dialettica che non può essere apertamente negata in un contesto che si professa liberale, decisamente organico. Non è sbagliato infatti considerare le istituzioni di Washington e i fondi newyorkesi come organi diversi della stessa creatura, che proietta la propria potenza in modo diversificato prima sul piano strategico e poi sul piano economico.

Ma in che modo i grandi fondi come BlackRock contribuiscono all’egemonia USA, in particolare sull’Europa? Per rispondere occorre innanzitutto puntualizzare una dinamica, spesso travisata nei contesti dell'informazione mainstream. Quotidiani e telegiornali ripetono continuamente che la BCE (banca centrale europea) e la FED (banca centrale degli USA) tengono alti i tassi di interesse per combattere l’inflazione. Ebbene, mentre questa implicazione è tutt'altro che scontata, c'è un altro effetto (indiscutibile) di queste politiche monetarie restrittive che viene regolarmente sottaciuto: i tassi alti attraggono capitali. Questo perchè tassi alti significa interessi più elevati e quindi guadagni maggiori. Considerando il grado di finanziarizzazione dell’economia questo è un fattore molto importante, anzi, è un fattore fondamentale.

Questo meccanismo sembra però funzionare in modo diverso fra le due sponde dell'Atlantico: i mentre gli USA stanno effettivamente riuscendo ad attrarre capitali, questo non è vero per l’Europa, che si ritrova tutti gli svantaggi legati ad un alto costo del denaro senza trarne alcun beneficio. A parziale difesa della BCE si potrebbe argomentare che la scelta sia obbligata se si vuol tener in piedi l'euro: di fronte dei tassi alti fissati dalla FED, a Francoforte non possono far altro che inseguire, cercando di limitare l’emorragia di capitali verso gli USA. In questo scenario, soggetti come BlackRock si fregano le mani: con i tassi alti chi ha a disposizione enormi quantità di liquidità è avvantaggiato e nessuno può competere con i grandi fondi da questo punto di vista.

Insomma, mentre gli USA attraggono capitali la borsa continua a macinare record su record, diventando quindi ancora più attrattiva. E i grandi fondi, grazie alla capacità di muovere somme impareggiabili, riescono a fare il bello e il cattivo tempo sui mercati: riescono a garantire che determinati titoli non crollino (l’esempio più recente lo abbiamo visto con Apple) oppure riescono a contribuire in modo importante alla crescita smisurata di altri titoli (come il caso NVIDIA). In generale, riescono a presentarsi credibilmente a un pubblico sempre più ampio come attori in grado di garantire, stabilmente, un buon rendimento degli investimenti, soprattutto sul medio e lungo periodo. Questo è un passaggio chiave: i fondi muovono una tale mole di denaro che sono percepiti credibili in quanto “garantiscono” certi rendimenti nel tempo.

Ed ecco in che modo i fondi costituiscono un pezzo del dispositivo egemonico statunitense: muovono il denaro in direzioni, sì, remunerative ma che, al contempo, sono allineate agli interessi USA. Ad esempio sostengono il debito americano oppure investono in aziende strategiche per i loro interessi. Ambendo a gestire più denaro possibile, da una parte cercano di guadagnare come cliente anche il piccolo risparmiatore (pensiamo alla diffusione di strumenti come gli ETF), dall'altra puntano a penetrare settori sempre più strutturali come la sanità e la previdenza, viste come piatti molto ricchi.

Il contesto europeo, caratterizzato da un progressivo arretramento dello stato sociale, è infatti sempre più permeabile ai grandi fondi. Fondi che si presentano agli occhi della persona comune come un'alternativa credibile agli istituti previdenziali pubblici, se non proprio come una vera e propria necessità per poter contare su un'assistenza sanitaria dignitosa (magari mediante una assicurazione) o su una pensione dignitosa (la famosa previdenza integrativa). O anche come una soluzione vantaggiosa per non lasciare erodere i propri risparmi dall’inflazione.

Il risultato netto è un flusso di denaro che, gestito dai fondi, viene diretto verso la finanza americana e quindi verso gli interessi americani. Questo comporta una perdita per i Paesi europei che è tanto maggiore quanto maggiore è la penetrazione di questi fondi. Da notare che la perdita non è solo quantitativa ma è anche una perdita qualitativa di sovranità, perché questi attori diventano progressivamente più pesanti e quindi più influenti. A tal riguardo, giova ricordare che questo processo non è inevitabile come lo dipinge Letta nel rapporto sulla competitività (elogiato, insieme a Mario Draghi, dalla von der Leyen) ma è una scelta politica.

C’è poi un ulteriore aspetto di questo processo di finanziarizzazione dell’economia egemonizzata dai grandi fondi: il risparmiatore che affida loro i propri risparmi (tanti o pochi che siano) vede coincidere il proprio interesse con quello dei grandi fondi. Ma se i grandi fondi si muovono in sincrono con gli interessi americani, ecco che gli interessi del risparmiatore vengono a coincidere con gli interessi USA. Questa dinamica è ormai piuttosto diffusa: se fino a pochi anni fa il ricorso a questi fondi interessava soltanto una fascia ristretta della popolazione che deteneva grandi patrimoni, oggi con l’offerta di strumenti finanziari su misura la platea di chi viene legato a questo dispositivo è decisamente aumentata. E la penetrazione dei fondi nelle partecipate, nella sanità, nella previdenza, accrescono e accresceranno sempre di più la portata di questo legame.

Non è un caso che Larry Fink venga intervistato da una penna di punta del Corriere della Sera, Fubini, che, in modo imbarazzante, lo dipinge come un “buono”, una persona concreta che si presenta come credibile alternativa ad una politica ormai screditata, insomma un salvatore. Nel corso della chiacchierata, Fink offre quello che è a tutti gli effetti un nuovo modello, che vede i fondi (come il suo), inserirsi in modo organico negli stati per garantire servizi che essi non sono più in grado di offrire. Il neoliberismo nella sua piena espressione: lo stato che non si fa da parte come nello “stato minimo” ma al contrario agisce per garantire i monopoli o gli oligopoli espressione dei rapporti di forza internazionali.

Veniamo alla chiusura del nostro ragionamento: i grandi fondi drenano risorse e le indirizzano verso il mercato USA, sostenendo anche la forte emissione di debito statunitense. Debito che gli USA stanno usando per finanziare una massiccia operazione di reindustrializzazione del paese, che si realizza anche mediante incentivi fiscali alle aziende europee per trasferirsi negli USA. Questo perché l’economia finanziaria è importante ma, per vincere la competizione internazionale, è necessaria l’economia reale. E a Washington lo sanno. Questo in sintesi il doppio canale di attacco degli USA nei confronti dell’Europa, per dirla con Kissinger: “Essere nemici degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere amici è fatale”.

A fronte di questa situazione, che è estremamente preoccupante, il dibattito pubblico in materia è inesistente. Mentre il vincolo esterno manifesta tutta la sua forza, si chiarisce ancora una volta che non esiste alcun “salvatore straniero”. Ogni nazione persegue i suoi interessi, e gli americani non fanno eccezione: che alle prossime elezioni vinca Trump, Biden o chiunque altro, questo meccanismo non si fermerà (per quanto vada riconosciuto che nel caso in cui i democratici lascino la Casa Bianca potrebbe aprirsi qualche spiraglio).

Un’Italia che volesse tornare ad essere soggetto e non oggetto delle ambizioni altrui dovrebbe cogliere la divergenza fra gli interessi americani e quelli europei e sfruttarli per ritagliarsi spazi di sovranità, tenendo presente che quello che chiamiamo vincolo esterno non è un solo cappio ma una miriade di fasci, alcuni più resistenti ed altri meno. Tutti ci stringono il collo ma alcuni possono essere usati per romperne altri e ogni centimetro che riacquistiamo contribuisce a rendere meno stringenti altri vincoli. Per far questo però serve una politica che abbia ben altra postura rispetto a quella che ci ritroviamo oggi. Una politica che, per la prima volta dopo trent'anni, torni a essere pro Italia.

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