Il dissenso non basta

Non basta indicare il baratro perché Willy il Coyote scelga di guardare in basso

Non basta indicare il baratro perché Willy il Coyote scelga di guardare in basso

Venerdì 26 Aprile 2024

“Beata ignoranza” è un’ espressione che tutti abbiamo sentito dire almeno una volta. Allude al peso morale che la conoscenza porta con se, all’irreversibilità della consapevolezza. In “Matrix”, capolavoro delle sorelle (ex fratelli) Lana e Lilly Wachowsky, il malvagio Cypher giunge a questa conclusione: “Dopo nove anni (di verità ndr)... Sa che cosa ho compreso? Che l’ignoranza è un bene.” E infatti qual è la ricompensa che chiede al “sistema” per il suo tradimento? L’oblio del tradimento stesso, l’oblio della verità e dell’inganno che Matrix rappresenta.

La metafora di Matrix, attualizzazione della caverna di Platone, ci racconta che, una volta visto il mondo reale, si è mossi dall’impulso di liberare dalle catene dell’ignoranza tutti coloro che ancora restano nella caverna, nonostante il rischio di venir uccisi dagli stessi che si intende liberare. Uscendo dalla metafora però non esiste un mondo “esterno” ed un mondo “interno” alla grotta: il mondo è sempre lo stesso. Siamo noi che cambiamo, che lo guardiamo con occhi diversi. Non esistono un “dentro” e un “fuori” nettamente distinti: prender coscienza delle dinamiche su cui si incardina il mondo in cui viviamo è un percorso fatto di tante strade e tanti traguardi, magari singolarmente impercettibili ma che nel tempo permettono di apprezzare la strada percorsa.

La figura del “movimento” mi fa venire in mente i famosi cartoni animati dei Looney Tunes di Beep Beep e Willy il Coyote: quante volte il povero coyote si trova a correre per aria e, fintanto che rimane concentrato sul suo obiettivo, la gravità non riesce neppure a sfiorarlo? È soltanto quando si ferma a pensare che viene raggiunto dalla realtà e quindi precipita al suolo (magari schiacciato da qualche immenso masso). Ecco, il coyote siamo tutti noi. Abituati solo a correre, ogni volta che rallentiamo il nostro istinto di sopravvivenza ci suggerisce che è una pessima idea guardare verso il basso. Una volta che lo avremo fatto non potremo più sfuggire alla verità, quindi continuiamo a correre fino a quando è possibile e non vediamo certo di buon occhio chi ci invita a fermarci e riflettere. Del resto è più che comprensibile: nessuno vuole precipitare giù dal dirupo.

Cogliere la verità comporta per il coyote la rovina, e noi ne ridiamo perché siamo esterni e ci godiamo la scena. Ma che succede se il coyote siamo noi o la persona di fronte a noi? Questo semplice cambio di prospettiva dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che, per quanto il richiamo alla realtà risulti irresistibile, c’è da fare i conti con la caduta: non è un passaggio che possiamo eludere, dobbiamo affrontarlo. Se quindi da un lato è opportuno agire, perché più si indugia nelle illusioni più alta sarà l’altezza dalla quale si cadrà, dall’altro è anche vero che durante la caduta ci sarà un volo e, soprattutto, avverrà qualcosa dopo il tonfo, a differenza di quanto non accada nel cartone animato, che termina con lo schianto del coyote per poi riprendere con un nuovo episodio. Nel mondo reale infatti la caduta non necessariamente porta a fare i conti con la verità. Il crollo di una specifica illusione crea, sì, un’opportunità, ma questa finestra può, in assenza d’altro, portare semplicemente a sostituire un’illusione con un’altra. E tutto questo senza considerare che la caduta, cioè il crollo dell’illusione, è un processo traumatico, che lascia delle cicatrici, in particolare il ricordo dell’estremo disagio che si è provato nel comprendere che certi elementi che si davano per assodati non erano come si pensavano o che, banalmente, non erano proprio.

Non stupisce quindi che alcuni, come il coyote, continuino a correre anche se ormai sanno che l’obbiettivo di agguantare Beep Beep è sfumato: sperano comprensibilmente che continuare a correre non li farà almeno precipitare. Se poi l’illusione ha assunto una consistenza tale da assumere una valenza identitaria, la caduta risulterà ancor più rovinosa. La sola prospettiva di guardar giù risulterà talmente intollerabile che la reazione a difesa della stessa sarà violenta, rabbiosa.

Nel film “Inception” di Christpher Nolan vediamo rappresentato in maniera cristallina quanto può essere pericoloso il venir meno di determinate certezze. Nel film infatti Mal, la moglie del protagonista Cobb (interpretato da Leonardo di Caprio), inizia a dubitare della realtà del mondo nel quale vive su suggerimento del marito, e in effetti questo la porterà a liberarsi di quell’illusione insieme al consorte. Ma a quel punto sorge un problema: mentre lui è giunto alla verità seguendo un certo percorso (non privo di contraddizioni), lei vi è stata indotta e così si scopre più vulnerabile alle conseguenze di questa rivelazione. In effetti Mal, tornata nel mondo reale, inizierà a convincersi che anche quel mondo è un’illusione e finirà tragicamente con il suicidarsi nel tentativo di tornare alla realtà, gettandosi dalla finestra di un palazzo.

Cerchiamo di trarre delle indicazioni pratiche da queste riflessioni: in primo luogo è fondamentale prendere coscienza che le illusioni sono certo dannose, ma anche il processo di uscita dalle stesse è traumatico, di conseguenza il rifiuto, potenzialmente violento (ricordiamoci della caverna di Platone) è una reazione prevedibile, anzi, scontata. Non deve quindi stupire che la semplice enunciazione della verità non porti automaticamente all’accettazione della stessa. Questo prima conclusione può sembrare banale, e in effetti dopo il percorso che abbiamo fatto lo è, ma quante volte abbiamo assistito a questo errore? Quante volte di fronte a un dibattito, a un comizio o a una trasmissione abbiamo sperato che la verità, magari enunciata da qualcuno che percepivamo come un nostro rappresentate, portasse automaticamente al successo?

Tanto per fare un riferimento all’attualità, questo è il paradigma a cui aderiscono alcuni dei personaggi e dei movimenti che si sono uniti al listone elettorale “Libertà” di Cateno de Luca. Nella visione di questi soggetti tutto si riduce a trovare un megafono e un pulpito da cui diffondere un messaggio (ad esempio: la nocività dell’euro e dell’UE per la nostra economia) che, per forza di cose, condurrà chiunque lo ascolti alla “conversione”. Alla luce di quanto detto precedentemente è evidente non solo che questo approccio non offre spazi per critiche di merito (se qualcosa dovesse andar storto è solo perché il megafono non è abbastanza potente), ma è anche impolitico, cioè non riconosce al potenziale ascoltatore di possedere una visione degna di esistere, lo spoglia preventivamente della propria dignità di pensiero. Ed infatti molti “dissidenti” si riferiscono ai potenziali ascoltatori come “addormentati”, “obnubilati”, “plagiati” e chi più ne ha più ne metta.

Se vi sta venendo in mente una certa assonanza fra questo approccio e quello tenuto dal mainstream nei confronti di chi non vi aderisce, la vostra intuizione è più che giusta. In effetti la tentazione di indossare le vesti della maestrina che, con la penna rossa, deve correggere gli alunni, è diffusissima in tutti i campi. E no, non è semplicemente questione di raffinare la forma del messaggio: se fosse soltanto per quello, il professor Bagnai avrebbe sicuramente riportato un successo. No, la questione si gioca su piani diversi.

L’esempio della caverna di Platone, con la netta demarcazione fra il dentro ed il fuori, fra l’essere libero e l’essere incatenato, può suggerire che esista un “risvegliato” ed un “addormentato” ma questo non è mai vero nel mondo reale. È un’immagine utile per cogliere la dinamica che porta a cambiare idea, a liberarsi di un’illusione, ma non cattura il fatto che tutti viviamo di illusioni e verità, spesso intrecciate, che costituiscono elementi importanti per noi, hanno un valore identitario e costituiscono parte del nostro essere. Non sono segni su una lavagna che possono essere cancellati e riscritti da chiunque intenda vestire i panni della maestrina. Per costruire un consenso politico attorno a certe posizioni, è innanzitutto necessario stabilire una connessione con il prossimo, riconoscere dignità alla soggettività altrui e di rimando farsi riconoscere, acquisendo così la credibilità necessaria per poter proporre all’altra persona un’idea diversa.

Se è poi vero che il crollo di un’illusione non comporta automaticamente il raggiungimento di qualsivoglia verità, sia essa scientifica, storica o politica, dobbiamo fare i conti con una seconda implicazione di questo ragionamento. L’idea che viene veicolata tramite l’identificazione con un “Dissenso”, con un “No-qualcosa” o con un “Anti-qualcosa” pone tutta l’attenzione alla distruzione di una specifica illusione e comprime ogni possibile proiezione politica in una mera negazione che non può costituirsi come orizzonte ultimo della nostra azione. Questo modus operandi non indica, insomma, né una direzione da seguire ne un metodo per evitare di passare da una illusione a un’altra.

C’è poi una terza, delicata, conseguenza della metafora di Willy il Coyote che dobbiamo tenere in considerazione, ossia il fatto che una caduta rovinosa a terra può produrre degli effetti inaspettati. Pensiamo per esempio a quello che è successo a militanti ed elettori del M5S: ci sono persone che non si sono più riprese dall’infrangersi di quell’illusione. Fra quelli che si sono ritirati nell’astensionismo radicale e quelli che sono giunti a bollare come “gatekeeper” ogni realtà organizzata, c’è una vastissima gamma di effetti di quella caduta traumatica. Bisogna riconoscere che qualcosa si è rotto e che, quindi, c’è qualcosa che può rompersi.

Infine, c’è una quarta conclusione estremamente pratica di queste riflessioni ed è che riconoscere la verità significa dotarsi di un metodo per giungervi. Per questo la fretta è una cattiva consigliera. La retorica emergenziale non è neutra, è un’arma che ha uno scopo preciso: impedire la riflessione. In nome dell’emergenza il coyote è costretto a continuare a correre senza poter rallentare e, dunque, senza poter maturare il dubbio di non aver più il terreno sotto le zampe. L’appello a “fare presto” perché “non c’è più tempo” si rivela quindi uno strumento eccezionale nelle mani di chi vuole garantire la stabilità delle cose e la tenuta del “pilota automatico”. Ma risulta inutile o persino dannoso nelle mani di chi ambisce a prendere il volante e, finalmente, dare una vera sterzata.

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