A partire dagli anni Settanta, in modo lento e graduale, e poi molto più velocemente e palesemente in queste ultime due o tre decadi, la scuola italiana ha subito un processo di inesorabile decadimento quantitativo e qualitativo: i nostri giovani hanno cioè studiato e saputo sempre di meno. Così, quello che per molto tempo era stato uno dei sistemi scolastici più seri e formativi al mondo (prova ne sia il successo che ricercatori, docenti e professionisti italiani hanno tradizionalmente riscosso all’estero, dove non c’era dipartimento delle facoltà più prestigiose o grande azienda e ospedale in cui non vi fossero connazionali a ricoprire gli incarichi preminenti grazie al grande livello dell’istruzione pubblica del nostro Paese) ha finito per imboccare la strada di un pericolosissimo e triste declino.
La perdita di rigore e la semplificazione estrema dei contenuti della scuola italiana non sono un’opinione, ma un dato di fatto sotto gli occhi di tutti: non servono certo le ricorrenti statistiche internazionali per farci scoprire l’ignoranza dei nostri studenti. Qualche anno fa è stato fatto un piccolo ma impressionante esperimento: sono stati messi a confronto i temi di italiano di ragazzi delle scuole medie degli anni Cinquanta e Sessanta con quelli di oggi. L’esito, neanche a dirlo, è stato deprimente. Le generazioni del passato avevano una padronanza della grammatica e una capacità di costruire un discorso articolato incomparabilmente maggiori, oltre a un lessico e persino a una fantasia indiscutibilmente più sviluppati.
È dunque lampante che la società, nel suo complesso, sia andata regredendo da un punto di vista culturale e che di fatto si sia - tecnicamente - instupidita, anche perché è ormai noto che pensiero e linguaggio si sono evoluti insieme e la capacità di pensare è condizionata da ciò che sappiamo dire. Come ha scritto Martin Heidegger: «Riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per pensare».
Ora, se ci chiediamo a cosa, o meglio a chi, dobbiamo tutto questo, chi ne sia cioè il responsabile più diretto e immediato, la risposta risulta assai semplice: si tratta dell’inevitabile conseguenza di una lunga serie di riforme sbagliate, nella teoria come nella pratica, concepite e approvate da tutte le forze politiche che, a turno, hanno messo le mani sulla scuola dalla fine degli anni Novanta fino ad oggi.
Ma la domanda molto più interessante, semmai, è un’altra ed è quella che riguarda le cause profonde di questo fenomeno di imbarbarimento culturale e, di riflesso, civile. Perché è accaduto questo scempio? E perché abbiamo tacitamente acconsentito che il delitto si consumasse? Dove eravamo tutti in questi anni, mentre qualcuno provvedeva a demolire la scuola italiana?
Possiamo provare ad abbozzare una risposta a queste domande partendo da quello che, incontestabilmente, è stato per l’istruzione pubblica l’inizio della fine: il Sessantotto. Un grande e, per tanti aspetti, necessario movimento di liberazione dei costumi e di apertura della società le cui istanze fondamentali sono però state fin troppo spesso disattese, se non completamente tradite, specie nel campo dell’educazione.
Invece che rendere accessibili a una porzione sempre più vasta della cittadinanza i benefici di un’istruzione solida e selettiva, qual era quella della nostra migliore tradizione, impegnandosi a rimuovere - secondo il dettato costituzionale - gli ostacoli economici e sociali che limitavano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e impedivano il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3), quello che è accaduto è stato l’esatto opposto: si è proceduto ad appiattire il livello generale. Invece di garantire ai figli meritevoli e volonterosi delle classi sociali meno abbienti la possibilità di poter studiare serenamente fino alla laurea in una scuola di qualità, si è prodotto un sistema scolastico che ha disintegrato la qualità in nome di un malinteso principio di uguaglianza.
Invece di permettere a chi lo meritava davvero di entrare a pieno titolo nel mondo del sapere e della cultura, si è distrutta la cultura.
La condivisione dell’eccellenza è diventata condivisione della mediocrità e al diritto allo studio si è sostituito il diritto al titolo di studio.
Non dobbiamo sottovalutare i danni a lungo termine di quella mentalità perversa che, allora, generò nelle università occupate fenomeni aberranti come il famigerato “18 politico” e i farseschi “esami di gruppo”, imposti con la minaccia della violenza, e che, oggi, ritroviamo nelle cosiddette “interrogazioni programmate”, ormai prassi consolidata nelle classi italiane. Una mentalità che, oltretutto, non ha fatto altro che alimentare proprio quelle disuguaglianze che, a parole, dichiarava di voler combattere, determinando in ultima analisi un’accentuazione delle differenze sociali. Perché, se per i figli dei ricchi c’erano e ci saranno sempre prospettive e possibilità, incluse scuole e università private, per i figli dei poveri la conoscenza e lo studio rimangono l’unico strumento di ascesa sociale. Per di più, per molti anni, ogni tentativo di riportare al centro della scuola serietà e disciplina è stato bollato come un tentativo reazionario, autoritario, se non addirittura “fascista”. Gli insegnanti che non si uniformavano al pensiero dominante e cercavano di proporre un recupero di certi valori, venivano emarginati e criticati.
Il frutto avvelenato del Sessantotto è stata dunque il disconoscimento del valore del merito, nella scuola come nella società. «I titoli di studio rilasciati dalla scuola e dall’università sono eccessivi rispetto alle capacità effettivamente trasmesse», ammetteva nel 2019 persino il sociologo Luca Ricolfi, autore de “La società signorile di massa”. E ancora: «La scolarizzazione di massa ha moltiplicato il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte ma il numero di tali posizioni resta invariato».
Ma non è tutto qui. Probabilmente c’è una ragione più indicibile e profonda che può spiegare le ragioni di questo apparentemente inarrestabile declino culturale. Per comprenderla, basta leggere le parole che nel 1947 Martin Luther King scriveva ad Atlanta sul giornale del campus “The Maroon Tiger”:
«L’educazione deve insegnare a pensare in modo veloce, risoluto ed effettivo. Pensare in modo incisivo e pensare da soli è molto difficile. Noi siamo inclini a lasciare che la nostra mentalità sia invasa da legioni di mezze verità, pregiudizi e propaganda. La grande maggioranza dei cosiddetti acculturati non pensa scientificamente e logicamente. Anche la stampa, la classe scolastica, il pulpito e il palco in molte occasioni non ci danno verità oggettive ed imparziali. Salvare l’uomo dal pantano della propaganda è il maggiore aiuto che l’educazione possa dare. L’educazione deve mettere in grado ognuno di vagliare e pesare l’evidenza, discernere il vero dal falso, il reale dall’irreale ed i fatti dalla finzione. La funzione dell’educazione, quindi, è insegnare a pensare intensivamente e a pensare criticamente».
I valori e gli interessi che governano il mondo in cui viviamo potrebbero mai permettersi una società civile costituita da cittadini del genere?