La terra, per i popoli, è "patria" ma la lingua si dice, non a caso, "madre".
Hans-Georg Gadamer disse "La lingua materna rimane. L'uomo l'apprende nei primi due anni di vita. Essa plasma la sua identità e non può essere sostituita da nient'altro". La lingua cioè si assorbe, nella prima fase, col latte materno. E la lingua comune è l'espressione basilare della cultura di ogni popolo.
Conoscere altre lingue accultura, introduce alle diversità e induce alla tolleranza delle culture altrui, ognuna delle quali nella sua relatività richiede rispetto, anche la più lontana dalla propria volendo che questa sia rispettata, rigettando ogni presunzione suprematista.
In un paese che possieda un'identità e intenda coltivarla - non al di sopra di altre ma di queste al pari - l'uso della lingua comune è valorizzato. Nelle colonie, invece, la lingua locale viene storicamente sovrastata, o soppiantata, da quella del dominatore.
Può esservi una lingua "franca" alla quale, pur non essendo la loro, stranieri ricorrano per comprendersi. Tale il caso del latino nella chiesa cattolica, del greco nell'ortodossa e fra le classi colte in antico. Celebre lo scambio in francese del prussiano Blücher col britannico Wellington dopo la vittoria a Waterloo, proprio contro la Francia. Ancora il latino, sotto dominazione romana, era al contempo lingua imperiale e lingua franca.
Oggi dilaga l'inglese, ma non il bell'inglese di Shakespeare, Milton, Samuel Johnson e Byron, bensì la lingua corrotta e volgare degli affari globali, lo yankee. Ridotta nel vocabolario e immiserita nel costrutto grammaticale, esibita non senza ridicole forzature da soggetti che l'inglese nemmeno sanno dove stia di casa e offrono penosa immagine di sé esibendosi, in Italia e all'estero, in avvilenti numeri da cabaret - politicanti in primis.
La pervasione dello yankee come lingua coloniale globale si è avvalsa del cosiddetto "potere morbido" attraverso l'innovazione tecnologica, la finanziarizzazione, gli affari e financo l'intrattenimento. È così assurta anche a feticcio di ignoranti che pappagallescamente esibendovisi, aspirano a uno status.
Il grillismo ha dato in questo del suo peggio. Da "Welcome day" a "Firma day" (!), espressioni che emblematicamente qualificano il sottostante servilismo linguistico travisato da vacuo nuovismo.
Meglio poi tacere sulle derive lessicali di certi sedicenti "sovranisti" alle vongole.
L'Italia è particolarmente affetta da un tal corruzione del pensiero. A parte gli "esperti", i "giornalisti" e i pubblicitari per i quali è divenuta fisiopatologia professionale, la categoria peggio messa è proprio quella dei politicanti. Basti pensare al cosiddetto (Blow) Jobs Act che già nel titolo induce emetismo acuto.
In Francia per regola protocollare gli esponenti delle istituzioni dovevano esprimersi in francese in tutte le manifestazioni pubbliche. Putin e la Merkel, pur conoscendo ognuno la lingua dell'altro, negli incontri ufficiali si parlavano tramite interprete.
La "patriota" Meloni, che avrebbe gradito un soggetto come Draghi alla presidenza della Repubblica, al recente incontro Cop27 in Egitto ha tenuto il suo bravo discorsetto in inglese, lingua di cui sono infarcite le sue dichiarazioni anche in sede istituzionale. Desiderio di compiacere l'amministrazione coloniale che dal 1945 mantiene basi e forze militari sul nostro suolo?
Di contro, il vicepresidente della Camera Rampelli (cui nulla ci accomuna) ha suscitato stupore allorché ha correttamente definito "dispensatori" i cosiddetti "dispenser" di gel disinfettante e il ministro Pichetto (cui meno di nulla ci accomuna) è stato biasimato per avere conferito con Kerry tramite interprete.
A epoca immune da globalismo e da sradicamento delle culture identitarie risalgono le ridicole campagne per l'autarchia linguistica promosse dall'ineffabile Starace (mescita per bar, cialdino per cachet, coda di gallo per cocktail e via sragionando) e la Legge del 1940 “Divieto di uso delle parole straniere nelle intestazioni delle ditte e nelle varie forme di pubblicità", complice la regia accademia d'Italia, che contemplava arresto o ammenda per i trasgressori.
Oggi che il globalismo mira a corrodere le radici stesse dei popoli un paese che voglia farsi rispettare, e soprattutto rispettarsi, deve anche rispettare la propria lingua comune. L'italiano non è menzionato in Costituzione come lingua ufficiale della Repubblica e ci pare giusto, considerate le molte minoranze linguistiche e le ancor più numerose lingue locali. Nondimeno è lingua ufficiale de facto, oltre che d'uso quotidiano.
Essere patrioti contro il globalismo anidentitario imporrebbe un'adeguata ed emblematica sua tutela, almeno a livello istituzionale. Non solo nei cicli dell'istruzione e nelle manifestazioni culturali ma con altre misure concrete. Per esempio, evitando termini stranieri nella scrittura delle Leggi e stabilendo che in discorsi e dichiarazioni pubbliche ufficiali in Italia e all'estero tutti i rappresentanti delle istituzioni debbano sempre esprimersi in italiano.
Ma di patrioti in Parlamento, nell'attuale maggioranza come nell'opposizione, non riusciamo a scorgerne alcuno.