L'irriformabilità del patto

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita? Un'ipoteca sul futuro del nostro Paese

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita? Un'ipoteca sul futuro del nostro Paese

Sabato 23 Dicembre 2023

Sono passati solo pochi giorni da quando Giorgia Meloni si è scagliata alla Camera contro la riforma del Patto di Stabilità e Crescita. Eppure, di questo veto tanto atteso non si è vista neanche l’ombra. 

All'Ecofin di mercoledì scorso infatti il nostro Ministro dell'Economia si è goffamente piegato all'ennesimo blitz franco-tedesco. Secondo le cronache dei partecipanti, Giorgetti sarebbe dovuto intervenire proprio dopo Lindner (ministro tedesco) e Le Maire (ministro francese), ma invece ha scelto di aspettare tutti gli altri colleghi per verificare che almeno uno avesse qualcosa da ridire sulla proposta portata al tavolo da francesi e tedeschi. Dopo aver toccato con mano che, anche questa volta, i giochi erano fatti, risulta che Giorgetti abbia dato il proprio consenso alla riforma, esibendo un notevole - testuali parole - "spirito di compromesso". Con i tempi che corrono, verrebbe da dire che vi sia stato un discreto errore di comunicazione tra il nostro Paese ed il duo franco-tedesco. 

Scherzi a parte, occorre segnalare che persino Elly Schlein, leader del partito che dell’austerity ha fatto la propria "mission", si sia potuta far beffe della resa incondizionata del governo Meloni su una partita così cruciale. "Irricevibile", "inapplicabile", "scellerata": queste le parole usate da vari esponenti del Governo nelle scorse settimane per qualificare le bozza della riforma del Patto di Stabilità e Crescita. Proprio quella bozza che alla fine è stata sostanzialmente confermata o addirittura, se possibile, peggiorata a ridosso dell'ultimo vertice dei ministri delle finanze UE. 

Per quanto riguarda il merito, senza addentrarsi nei tecnicismi che appassionano soltanto gli addetti ai lavori, la principale innovazione prevista dal nuovo Patto consiste nel predisporre all'interno del cosiddetto "braccio preventivo" due diversi percorsi di aggiustamento fiscale per i Paesi membri. Il primo, di 4 anni, richiede una riduzione annuale del deficit strutturale dello 0,4% del PIL fino al raggiungimento di una "soglia di salvaguardia" dell'1,5%. Il secondo invece, vero e proprio cavallo di Troia della Commissione per tutti i Paesi "non frugali", si protrae per 7 anni e prevede tagli al deficit strutturale più clementi ma - udite, udite - impone inderogabilmente la realizzazione delle ormai celebri "riforme che ci chiede l'Europa", meglio note come "riforme lacrime e sangue". Insomma, a Bruxelles non bastava il PNRR: siccome quel dispositivo arriva solo fino al 2026, si è ritenuto che ci fosse bisogno di qualcos'altro per ipotecare anche gli anni successivi. E quel qualcos'altro è proprio questa nuova versione del Patto di Stabilità, che si spinge ben oltre l’imposizione di rigide regole fiscali e arriva addirittura a definire come dovranno legiferare e spendere i propri soldi certi Paesi. Tra cui, poco sorprendentmente, figurerà l'Italia.

Se tutto questo non bastasse, una volta riformato, il Patto vincolerà tutti i Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% a ridurre il debito pubblico di una media dell’1% annuale sul periodo di aggiustamento. Periodo che, per l'appunto, potrebbe essere anche esteso a 7 anni a patto di accettare il vincolo delle riforme strutturali. Certo, occorre ricordare che in questo contesto le medie sono come i polli di Trilussa: è un dato di fatto che i governi tendano a immaginare su carta clamorosi abbattimenti del debito negli orizzonti temporali più lunghi in modo da tirare il classico calcio al barattolo per portare a casa la finanziaria dell’anno corrente. Ma in prospettiva le cose non sono affatto rosee perché, questa volta, l’orizzonte sarà ben definito.

Qualcuno fra i lettori si sarà accorto del fatto che finora abbiamo accennato soltanto alle novità riguardanti il "braccio preventivo" del Patto. Purtroppo però si dia il caso che una delle "feature" più inquietanti introdotte dalla riforma riguardi proprio il famigerato "braccio correttivo": d'ora in avanti le procedure d'infrazione per deficit eccessivo (che per quanto possa sembrare illogico potranno esser innescate sia dal livello del deficit che da quello del debito pubblico) saranno rese più facili e immediate da attivare. Dato che il deficit previsto dalla nostra ultima NADEF per il 2025, anno in cui entrerà davvero in vigore il nuovo Patto, si attesta al 3,6% del PIL (valore che supera la famosa soglia di Maastricht) una procedura di deficit eccessivo per l'Italia potrebbe divenire realtà. In un contesto del genere gli aggiustamenti strutturali pretesi da Bruxelles tornerebbero annuali, non più spalmati su una media di quattro o sette anni, e ammonterebbero per la precisione allo 0,5% del PIL. 

Si noti che su questo punto molti europeisti nostrani brindano per una (risibile) concessione dei paesi nordici: l’aggiustamento strutturale appena citato solo per gli anni dal 2025 al 2027 potrà essere calcolato tenendo in considerazione l’aumento dei tassi d'interesse sulla spesa per il debito. Di fatto si parla, nel migliore dei casi, di farsi abbonare qualche decimale. E poi, dal 2027 in poi, chi si è visto si è visto.

L’Europa dei falchi tedeschi si è presa, insomma, una grande rivincita. E lo ha fatto, stranamente, proprio nel momento di maggior fragilità della Germania, travolta sia sul fronte economico che su quello politico dello scandalo che la Corte dei Conti ha portato a galla su come venissero stanziati fondi pubblici fuori bilancio in maniera illecita. Ma si sa: se c'è una cosa che ai tedeschi piace fare più che rispettare le regole è farle rispettare agli altri.

Mentre l’eurozona si trova alle porte di una nuova recessione, si torna nella sostanza alla vecchia e cara - carissima! - austerità. E stavolta con un guizzo in più: una marcia a tappe forzate verso le sacre riforme. Esempio plastico di come certe regole e certi patti siano irriformabili ma buoni solo per il compost. O forse manco per quello.

 

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