Il copione non avrebbe potuto essere più scontato: il secondo turno di queste elezioni presidenziali francesi sarà una riedizione di quello di cinque anni fa. Cinque anni che sembrano un’èra geologica: la pandemia, il cambio della guardia alla Casa Bianca e da ultimo, la guerra alle porte dell’Occidente. Del vortice della storia ai francesi non sembra importare molto. In effetti, la situazione politica appare decisamente in stallo.
Certo, il presidente Macron (28%) non è il candidato Macron del 2017: allora egli rappresentava la rottura, quasi violenta, del sistema ordo-liberale con quell’equilibrio social-democratico basato sui corpi intermedi che in Francia ancora vivacchiava; oggi è il Presidente di un Paese che non ha mai accettato la fine dei Re Taumaturghi (a maggior ragione se pandémie oblige), quindi rappresentante quasi spirituale dell’ordine costituito. E minacciato dai venti di guerra che ha dovuto affrontare in queste settimane in modo duale e paradossale, e cioè in quanto capo di uno Stato dotato dell’arma nucleare (massima espressione della sovranità francese) e Presidente di turno dell’Unione Europea (massima negazione della stessa).
Nemmeno Marine Le Pen (23%) è la stessa di cinque anni fa, né lo è il suo partito, il Rassemblement National (ex Front National). La sua transizione dall’anti-europeismo a un più moderato euroscetticismo, ben lontana dall’essere completa nel 2017 (e cagione della sua figuraccia al dibattito contro Macron, durante il quale non riuscì a esprimersi in modo compiuto sull’euro), lo è adesso. Degna di nota in questo senso è la scissione della corrente sovranista di Florian Philippot. Non solo: ogni riferimento, anche velato, alle questioni etniche che infuriano in Francia è scomparso, tanto che un altro candidato, il giornalista e polemista Eric Zemmour (7%), le ha fatte sue.
Ciò che invece è rimasto plasticamente identico è il tracollo dei partiti tradizionali, socialisti e gollisti: il sindaco di Parigi Anne Hidalgo e la Presidente dell’Ile-de-France Valérie Pécresse hanno racimolato rispettivamente il 2% e il 5%, perdendo i loro serbatoi di voti in favore dei candidati più anti-sistema dei rispettivi schieramenti. Stessa sorte è toccata all’esponente dei Verdi, Yannick Jadot (5%, comunque più del doppio dei socialisti).
Se gli scrutini della destra si sono divisi fra la Le Pen e Zemmour, il voto della sinistra è andato in massa (altra conferma rispetto al 2017) all’ex-socialista Jean-Luc Mélénchon, paladino di una sinistra sui generis che respira contemporaneamente da un polmone sovranista, laico-repubblicano e da un polmone per nulla ostile al “meltin pot” della globalizzazione, capace di racimolare altissime percentuali fra gli elettori islamici e di origine africana.
Il sistema elettorale a doppio turno condanna tutti questi candidati all’irrilevanza - e poco importano le loro dichiarazioni di voto (quasi tutte a favore di Macron o contro Le Pen, con l’ovvia eccezione di Zemmour). Se è ancora presto per dare per scontata la vittoria di Macron (bisogna aspettare, per decenza, l’esito del dibattito televisivo fra i due), è d’obbligo segnalare come il meccanismo delle presidenziali, architrave della Quinta Repubblica francese voluta da De Gaulle, privilegi fortemente Macron, candidato “di sistema” che riceverà, con ogni probabilità, i voti della sinistra, del centro e di parte della destra moderata. Non siamo negli Stati Uniti, dove molti elettori di Sanders passarono, con una scelta ideologicamente eterodossa, a Trump. Il barrage contro il fascismo, vero o supposto che sia, della Le Pen ha ancora una sua valenza. A rafforzare ulteriormente Macron interverranno a giugno le elezioni legislative, che daranno vita con ogni probabilità a una maggioranza bulgara filo-presidenziale, grazie a una legge elettorale fortemente maggioritaria.
Fin qui, i fatti. Adesso abbiamo bisogno delle interpretazioni, prima fra tutte una spiegazione del paradosso per cui un presidente percepito (non a torto) come l’espressione delle élite finanziarie e globaliste, che ha scavato violentemente il solco già profondo fra città e campagne fino a far scoppiare le rivolte dei gilets jaunes, paladino di una gestione autoritaria e classista (potremmo dire “italiana”) della pandemia, sia il vincitore virtuale di un’elezione che ha visto trionfare i candidati anti-sistema (55% dei voti complessivo). Si apra il dibattito. Noi, dal canto nostro, azzardiamo due ordini di motivi. Il primo, oggettivo, è l’effetto-bandiera che premia il Presidente in un momento di forte crisi (à la Bush 2004): le restrizioni per il Covid sono state tolte da poco in Francia - giusto in tempo per le presidenziali secondo le malelingue - e la guerra in Ucraina è lungi dal finire. Il secondo riguarda l’assenza di un soggetto politico autenticamente strutturato sui pilastri della sovranità nazionale e della centralità del lavoro, capace al contempo di superare steccati ideologici anacronistici (dei quali sono prigionieri Mélénchon e Le Pen) e di evitare la trappola della questione etnica (in cui sono caduti, in modo antitetico, lo stesso Mélénchon e Zemmour). Limiti che assomigliano fin troppo a quelli dei soggetti politici nostrani, e che rappresentano altrettanti spunti di riflessione per l’agire futuro di tutta la galassia sovranista italiana.