Lo Stato umile

Il potere che acquista consapevolezza di non essere il fine ultimo

Il potere che acquista consapevolezza di non essere il fine ultimo

Sabato 25 Gennaio 2025

Queste righe sono il tentativo di fornire una versione sintetica di una riflessione teorica scaturita dal convergere di interessi filosofici e analisi dell’attualità, in quanto volta ad esplicitare quelle che mi paiono essere le sue derive più fastidiose. Seguiranno delle tesi e una proposta politica indiretta (non avente a che fare cioè con esplicite rivendicazioni programmatiche, ma più con il giusto ruolo che ad esse si deve attribuire) che è impossibile motivare qui pienamente. Lo scopo è dunque unicamente quello di esplicitare una posizione, che si tratta poi di dover argomentare più diffusamente in altro contesto. L’argomentazione seguirà dunque un’andatura discorsiva più che tecnica, come invece si confarebbe ad un contesto più formale.

 

Il dualismo fra individuo e Stato

 

Credo sia necessario partire dal Novecento, perché – a mio avviso – è in contrapposizione rispetto a quanto accaduto nella prima metà del secolo scorso che le forme statuali in cui siamo collocati oggi hanno plasmato la propria identità ed i compiti che si sono attribuite.

In estrema sintesi, ritengo si possa affermare che la risposta totalitaria – quale che sia l’ideologia di riferimento che la mette in atto – alle mancanze attribuite al modello liberale esprima l’insoddisfazione nei confronti di un mondo – quello moderno – apparentemente destinato a svuotarsi di senso. Non è solo il marxismo a puntare il dito sulla progressiva mercificazione dell’esistente. Anche quelle forme di socialismo nazionale che tentano di mobilitare i lavoratori tramite un appello più “irrazionalistico” e organicistico al loro ruolo nello Stato e alla collaborazione fra le classi – più che al loro conflitto in vista del capovolgimento dei rapporti egemonici – egualmente individuano nell’atomizzazione del soggetto quale risultato della modernità ciò da cui risulta necessario smarcarsi.

Per quanto sia consapevole delle inevitabili contrapposizioni fra comunismo sovietico e nazifascismo e della semplificazione comportata dall’accostare non problematicamente queste due esperienze (ammesso e non concesso che i modelli in gioco siano davvero riducibili a così pochi), ricordo che qui si sta cercando di compiere un ragionamento strettamente teorico, che dunque necessita un qualche grado di astrazione. Di concreto però si può senz’altro far notare come i due atteggiamenti politici in gioco a cui si è fatto riferimento esprimano effettivamente una medesima impostazione logica nel criticare il liberalismo: se per Gentile “in fondo all’Io c’è un noi”, anche per i marxisti – pur nelle mille sfumature in cui la loro impostazione si declina – l’individuo non ha ragion d’essere se non nel contesto sociale in cui si trova inserito e da cui trae la propria rilevanza. V’è insomma l’esigenza di affrancarsi dalla nozione liberale di libertà: una libertà negativa, che si riesce a qualificare solo come l’astratta possibilità di non essere limitati nelle proprie scelte e azioni. Di contro, si propone l’accostamento della libertà col dovere e con la necessità derivante dall’adesione al proprio ruolo (intra-statuale o entro il destino storico della propria classe sociale, nel secondo caso in quanto conduca all’affrancamento dal bisogno materiale): sottrarsi all’astrattezza dell’esistenza individuale coincide dunque con la piena realizzazione di sé quali soggetti politici, che si muovono nello spazio della società e rivendicano l’accesso al potere ed il controllo di quest’ultimo, che costituisce – in tale prospettiva – l’orizzonte definitivo in base a cui comprendere l’esistente.

Si profila dunque una forma di dualismo: da una parte l’individuo – e la rivendicazione liberale del fatto che questo debba essere il polo attorno a cui ruota la comprensione della struttura della società – e dall’altra i rapporti sociali e lo Stato, a cui chi vuol contrapporsi a quella perdita di senso che sembra inevitabilmente comportata dai risultati della modernità pare doversi appellare.

Ogni totalitarismo esprime l’idea che vi sia un interesse più grande di quello dell’individuo di fronte a cui è legittimo far richiesta del sacrificio di quest’ultimo, una forza sostanziale scaturente da un’identità più originaria di quella soggettiva, operando in vista della quale riemergerebbe anche il senso dell’esistenza singolare.

La mia tesi è che anche la statualità post-totalitaria resti invischiata nel medesimo dualismo fra individuo e Stato, quale ho cercato di caratterizzare brevemente sopra: pretendendo di indicare il problema nella retorica in base a cui l’istituzione totalitaria legittima se stessa, si è ritenuto di dover censurare l’idea che si possa fare appello a verità forti in vista di cui sacrificarsi, ma la caratterizzazione del potere come realtà ultima resta determinante per qualificare l’autocomprensione che lo Stato (concentriamoci su questo) continua ad avere di sé. Si giunge così al paradosso di una falsa sintesi: la forza coercitiva del potere resta stabile, ma adesso è tutta rivolta a minare la possibilità che l’individuo si realizzi per mettere in opera convinzioni che pretendano di avere statuto più solido di mere opinioni soggettive, dato che la loro implementazione comporta una concessione a quel modello di interazione col mondo inevitabilmente “violento” che consiste nella scelta deliberata di tracciare un solco nel reale, la decisione di stabilire delle priorità e dunque escludere ciò che rispetto ad esse risulta d’ostacolo. Al contempo, proprio perché ogni scelta autentica necessita di imporre – a qualche titolo – una decisione, eliminando cioè le alternative, il potere che si trova nella posizione logica di non poter far appello ad un concetto forte di verità sarà costretto a presentare la sua indicazione come neutrale, inevitabile, non decisa, ma semplicemente naturale. Ed ecco un inaspettato riemergere del concetto di sacrificio, di cui si riappropriano nuovamente le ideologie con retorica stavolta opposta a quella della volitiva imposizione: chi può dimenticare le lacrime di Elsa Fornero quando faceva presente agli italiani la necessità di “fare i sacrifici”?

Scegliere una direzione ed eliminare (sacrificare, appunto) delle alternative è inevitabile: per quanto si sia abolito il concetto di una verità ultima in base a cui organizzare le proprie priorità, resta nondimeno la necessità di dirigere se stessi in base a qualche principio, sia esso conscio o meno; rispetto al primo totalitarismo, però, ci si trova nella difficile condizione di non poter arrogarsi la legittima responsabilità della scelta imposta, giacché ciò equivarrebbe ad ammettere (soprattutto a se stessi) di aver abbandonato la purezza del proprio relativismo. Così, un simile potere, che tenta di allontanare da sé il modello totalitario, tende – a questo punto comprensibilmente, per quanto ciò sembri paradossale – ad avvicinarsi alla tecnocrazia, cioè alla pretesa che le scelte politiche compiute non siano affatto scelte, ma mere necessità derivanti dall’accettazione di stati di cose o addirittura imposizioni a cui il governante stesso deve sottomettersi suo malgrado: nella sua forma più compiuta, l’atteggiamento descritto si manifesta come legittimazione ottenuta tramite lo statuto di vittima da parte di chi governa.

Penso sia chiaro che sto parlando di ciò che nell’orizzonte del dibattito qui costruito abbiamo più volte chiamato col nome di “maestrina”. Vale la pena definirla ancora una volta. Si tratta del risultato del processo di femminilizzazione nichilistica dell’autorità: costei insegna a bacchettate che non devono esistere idee per cui morire, gabellando la negazione del concetto stesso di sacrificio per liberazione dall’autoritarismo novecentesco. In luogo del paternalistico “devi”, questo potere può esprimersi solo in negativo, tramite un “non devi” che si declina come garanzia del rispetto della diversità. In questo contesto mi preme far notare allora un solo punto: la deriva securitaria a cui assistiamo ormai nell’attualità non risulta spiegabile tramite il mero appello alle colpe del cosiddetto “liberismo”. Contrariamente a quanto sostengono molti analisti della contemporaneità, che ancora s’attardano a criticare il modello di libertà individualistico come matrice dei mali dei nostri giorni, difficilmente si può sostenere che i nuovi strumenti di controllo riflettano l’idea di garantire una libertà intesa come “poter fare ciò che si vuole” (pena la patente contraddizione). Al contrario, com’è reso evidente dalla retorica con cui si è giustificato l’implementazione delle misure adottate in risposta alle ultime emergenze (che siano vere o presunte non è in nessun modo il punto dirimente), l’attitudine moralista con cui si giustifica l’intervento statale fa ampio uso di argomenti dal sapore collettivistico: “il vaccino è un atto d’amore”, “lo fai per gli altri” ecc. Coerentemente, a sinistra (non mi riferisco al cosiddetto “dissenso”, ma tanto ai comunisti veri e propri quanto alla tradizione cosiddetta “democratica”) si è salutato, difatti, l’esperienza della gestione pandemica come un apprezzabile ritorno all’interesse per il bene comune e all’impegno civico.

Mi sia concessa una sintesi. Come dicevo, ho cercato di descrivere fin qui una forma di dualismo: da una parte l’esaltazione della libertà individuale come “libertà di poter fare” e dall’altra l’insistenza sulla necessità di calare l’individuo nella società, e dunque la libertà come dovere civico. Come in ogni dualismo, insistendo a sufficienza nel tener ferma una posizione in contrasto rispetto all’altra, ben presto ci si rende conto di non saper più ben distinguere dove risieda il confine fra le due.

 

Modello triadico

 

La proposta di ciò che si è chiamato “Stato umile” è riassumibile in questi termini: sostituire il modello che si è tentato di descrivere in modo semplificato come duale – la contrapposizione fra il polo dell’individuo e quello della società/Stato – con uno triadico. Anziché pensare lo Stato ed il potere come orizzonte ultimo della realtà, si segnala la necessità di riconoscere una dimensione superiore alle prime due. Di nuovo, senza dilungarsi troppo e limitandosi a esporre il precipitato della riflessione teorica, si qualifica questa dimensione ulteriore nei termini della Verità che sovrasta il potere e che questo non può esaurire. Si tratta dell’idea dello scopo ultimo a cui tende tanto l’individuo quanto lo Stato per poter essere ciò che sono.

Intendiamoci. Quando scrivo “sostituire”, non pretendo affatto di sostenere che il modello triadico che sto proponendo sia una sorta di nuova invenzione filosofica: a mio avviso, tutta la modernità pre-novecentesca mantiene una coscienza (sebbene progressivamente più sfumata, fino al suo sparire) del fatto che vi sono delle verità che sovrastano le capacità d’azione degli Stati, di chi in essi detiene il potere e persino della storia. La religione cristiana, e la Chiesa come istituzione realmente esistente e non mero appello all’aldilà, hanno sempre svolto il ruolo di fornire un chiaro aggancio del mondo secolare ad un orizzonte manifestativo della cui eccedenza si aveva consapevolezza. Prevengo una possibile obbiezione: sarebbe ozioso elencare le inevitabili distorsioni ideologiche che questa nozione ha storicamente subìto. Il mio punto qui è unicamente far notare che far riferimento ad una dimensione veritativa che è ammessa tematicamente come eccedente rispetto a ciò che il potere è in grado di dirne significa garantire una forma di libertà di per sé irriducibile a quella ottenibile se si lascia la definizione di quest’ultima al solo ambito giuridico, statuale o sociale. Nella prospettiva che sto cercando di presentare, l’individuo ha sempre la possibilità di connettersi con la Verità sovrastorica e oltremondana e contrapporsi a scelte eventualmente illogiche del potere: nel farlo, non rivendica semplicemente di poter “fare ciò che vuole”, ma, riconoscendo la razionalità stessa del potere, vi passa attraverso, accettando, se necessario, tutte le conseguenze che la propria scelta comporta. Faccio notare che ciò che sto descrivendo non è un mero appello a “come le cose dovrebbero andare”, ma il genuino tratteggiare come le cose di fatto vanno, tutte le volte che si cattura con consapevolezza la reale presenza della suddetta dimensione sovra-statuale, sovra-storica e oltremondana, nonché la sua messa in opera da parte di individui storici.

Il fatto che ciò che sto descrivendo non sia un mero appello all’idealità di valori che la società contingentemente tradisce è dimostrato dagli esempi reali in cui forme di potere che pretendono di non aver limiti incontrano ostacoli insormontabili alla propria capacità d’intervento. La mia tesi è che le forme del potere attuale, sebbene post-totalitarie, manifestino la medesima tendenza a voler pacificare interamente lo spazio del reale, ma “con segno meno davanti”: se nel modello totalitario ciò avviene violentemente, la maestrina al contrario punta a rendere impossibile ogni negatività e ogni dolore, ma proprio per questo assumendo con più forza la necessità di un atteggiamento coercitivo, fino a spingersi a violare la logica propria delle modalità d’intervento delle istituzioni nella vita degli individui. Sto sostenendo che si è ormai diffusa la tendenza a ritenere che abbia maggior rilievo l’effettuale rispetto di una norma piuttosto che la libera adesione al suo contenuto da parte di ognuno. Se è vero che si tratta di un mero ribaltamento in negativo della logica totalitaria (cioè non in vista dell’imposizione di un ruolo, ma piuttosto di un’inibizione), allora è legittimo far riferimento a quella letteratura che già si è occupata di tutto ciò, inquadrandola però con sguardo nuovo. Non è solo il protagonista del romanzo di Orwell a trovarsi costretto ad asserire una contraddizione nel dire che “2+2 =5”, ma è anche la forma statuale in cui è immerso a non rendersi conto di entrare in contraddizione con sé stessa. È infatti il tentativo di forzare qualcuno a fare qualcosa volontariamente. Un esempio concreto di ciò che intendo non può che derivare nuovamente dalla stagione emergenziale appena trascorsa: il “consenso informato” era in fondo la richiesta di aderire volontariamente ad una scelta imposta. Ebbene, si noti tuttavia che un simile tentativo è costitutivamente fallimentare, perché potrebbe realizzarsi soltanto se il potere non avesse soltanto la capacità di punire chi viola una regola, ma fosse capace di renderne materialmente impossibile l’oltrepassamento, cioè, in ultimo, di sostituirsi direttamente alla coscienza: resta un’incommensurabilità fra la pur intensa capacità d’azione e di punizione che un’istituzione possiede e le potenzialmente infinite direzioni tramite cui smarcarsene che sono evocabili nel fargli fronte. Pretendere che la legge sia inviolabile coincide in fin dei conti con la richiesta che tutti siano buoni: ogni questione riguardante il contenuto della legge diventa irrilevante perché essa manifesta immediatamente di coincidere con la negazione della libertà, che di fronte ad una simile tirannia inevitabilmente si riafferma nella sua forma più basilare, cioè come giusta “cattiveria”. La scelta del male, del resto, è la prima forma in cui si manifesta il libero arbitrio.

In sintesi, ciò che dal punto di vista simbolico è necessario afferrare è l’idea di uno Stato che non pretenda di costituire l’orizzonte ultimo della realtà, ma che sia ben consapevole che c’è uno spazio al di sopra di sé, al di fuori della sua disponibilità, che non è nient'altro che la dimensione dei fini ultimi della vita umana. Una simile statualità, che assume un livello di coscienza superiore a quella attuale, è ciò che si è voluto chiamare Stato umile. È umile quello Stato che sa di non potere realizzare il Paradiso in terra, né è tanto presuntuoso da investirsi della missione di scongiurare il presentarsi dell’Inferno in terra. Fuor di metafora, esso non cerca di pacificare integralmente la vita comunitaria (come invece si è tentato di fare nelle dittature organiciste del Novecento) né ritiene che gli spetti la possibilità di prevenire ogni futura emergenza collettiva (e oggi più che mai è facile rendersi conto di come la retorica del potere assuma sempre più spesso questo tono). Così, uno Stato davvero consapevole della propria limitatezza e, dunque, della perfettibilità dei propri dispositivi normativi, s’impegna a riconoscere dei margini di conflitto persino nei propri confronti. È per questo che formalizza la necessità di garantire la possibilità materiale della violazione delle proprie leggi, giacché ogni pur seducente tentativo di violare questo principio è in ultimo fallimentare. Se si è seguito quanto esposto fin qui, non sarà difficile comprendere che ogni Stato non può che avere le fattezze di uno Stato umile. Il vero elemento di novità – e ciò che ne offre la definizione – consiste nel riconoscere questa realtà e prenderne atto.

Che cosa significa, poi, qualificare in positivo l’attività di una simile forma di Stato? Significa liberarsi delle pastoie in cui il dibattito in reazione agli eventi del primo Novecento ci ha costretti: se il concetto di sacrificio per un bene e una comunità più grandi dell’individuo atomico liberale è un’esigenza inevitabile dettata dalla volontà di riportare il senso nelle nostre vite, dato quanto esposto, non è affatto detto che il sacrificio dell’individuo debba essere compiuto solo in vista di quella totalità strettamente umana e civile che è lo Stato. Ciò che si è qui talvolta chiamato ironicamente lo Stato-maestrina rigetta il concetto stesso di totalità e la sensatezza del tema del sacrificio per paura di far concessioni al totalitarismo; la maestrina è vittima di un’illusione percettiva: scambia la totalità col totalitarismo ed il potere con la Verità. Nel pretendere che non vi sia alcuna verità universale, da questo tipo di atteggiamento dell’istituzione deriva non certo l’incitamento ad una morte violenta, ma si preannuncia tuttavia l’altrettanto nefasta prospettiva di una morte per consunzione. Se non v’è nulla per cui vale la pena sacrificarsi, che senso ha vivere?

La tesi che sto sostenendo è che l’individuo possa sacrificarsi proprio in vista della dimensione dei fini ultimi e sovra-mondani, di cui a questo punto anche lo Stato può farsi mezzo. Se si comprende che cosa significa spogliarsi di sé in vista di ciò che eccede rispetto al mondo eppure lo ingloba, se ne ricava che – al contrario del contesto totalitario, in cui al sacrificio individuale corrisponde solo il divenire strumento di una macchina collettiva – in questo caso invece la pienezza e l’originalità dell’individuo ritornano a lui nella loro massima intensità dopo essersi liberato della sua esistenza iniziale. Se non esplicitassi il modello che ho in mente, quanto cerco di descrivere non potrebbe che restare astratto: solo un Dio personale, di cui potersi fare imitatori, può garantire che il sacrificarsi in vista di Lui ci restituisca la pienezza della nostra identità; solo la comunità dei santi può garantire che il rendersi parte di un medesimo corpo unitario non significhi fondersi con una mera massa in cui le singolarità spariscono. C’è dunque vicinanza apparente con il liberalismo (che di fatto è una degradazione storica della logica di ciò che sto descrivendo), ma, in luogo della libertà di fare propugnata da quest’ultimo, qui si sta delineando il tema di una libertà di diventare, che, giocoforza, anzitutto si realizza proprio nel mondo: l’aver trovato una verità che lo scavalca, anziché essere una forma di escapismo, ci riconduce anzitutto alla realtà concreta ed immediata con sguardo nuovo.

Sintetizzo così quanto ho cercato di esporre, facendo riferimento ad un dibattito in cui quanto tratteggiato va calato. Mi limito qui unicamente ad accennarvi1. Se c’è un’accusa che il niccianesimo muove al cristianesimo, è quella di essere matrice della prosaicità del mondo moderno, avendo svuotato di senso la vita terrena per proiettarne il fine in quello che è apparentemente un mero aldilà. In quest’ottica, il Novecento risulta essere proprio il secolo di un forzato ritorno al sacro, cioè alla necessità che il mondo al di qua abbia senso, una volta dichiarata decaduta l’immagine del Dio cristiano. Ma, proprio come in Nietzsche, all’annuncio della morte di Dio si accompagna l’evocazione degli dèi pagani. Si punta infatti a sostituire il fine oltremondano con varie forme di legittimazione del sacrificio in vista di dèi terreni, i più riconoscibili dei quali sono lo Stato (nazismo, fascismo) e la Storia (marxismo). Possiamo definire infatti il sacro come ciò per cui vale la pena morire, ovvero come residuo oscuro di senso che precede l’esistenza individuale e da cui deriva la volontà di liberarsi della propria troppo limitata identità. Contrapporsi a tale esigenza, dal secondo Novecento in avanti, ha significato eliminare nuovamente la percezione che ci sia un senso nella vita.

Il cristianesimo non è tuttavia mero svuotamento del sacro dal mondo, ma comporta anche la proiezione di esso su di una persona oltremondana, di cui l’uomo si pensa immagine e con cui si stabilisce una connessione nell’evento concretamente storico dell’Incarnazione: la sacralità non si limita a sparire, ma si trasforma nella nozione di santità. Laddove sacra può essere solo una cosa, santa è unicamente una persona. Se mi si è seguito fin qui, si capisce allora che la risposta che propongo alla crisi attuale non consiste in un mero ritorno al modello del sacro: se il sacro è ciò per cui vale la pena morire, il santo è ciò per cui vale la pena vivere. Riagganciarsi alla consapevolezza che esiste una realtà sovra-mondana e una Verità sovra-statuale risponde cioè ad un problema onnipervasivo della nostra realtà: depressione, tentazione di ricorrere al suicidio, percezione dell’insensatezza di costruire nuove famiglie o generare figli sono volti presenti a tutti quanti di un unico fenomeno, che ho appunto tentato di descrivere a partire dal riferimento alla reazione alla mal diretta esigenza di sacrificio.

Voglio concludere con un’immagine che spero sia in grado di chiarire ciò che intendo. Quando parlo del modello della santità come ciò che è necessario recuperare non sto cercando di impostare un discorso teologico o un richiamo moralista rivolto a chi non è credente, ma sto piuttosto evidenziando la drammatica alternativa comportata dalla scelta di non credere: la desolazione, almeno nell’ora in cui non v’è ragione mondana – immediatamente visibile – per cui appaia sensato sopportare ancora la sofferenza insita nel continuare a vivere. E neppure si tratta di un discorso rivolto soltanto a chi è interessato strettamente al tema della fede: insisto sul fatto che la logica del concetto di santità, anche nelle sue applicazioni più prosaiche e quotidiane dell’esistenza, è la risorsa migliore che abbiamo perché tutto il resto – anche l’attività politica – riacquisti senso. L’immagine a cui facevo riferimento è questa: nel suo La crisi degli olivi in Liguria2, Boine parla degli sforzi incredibili profusi dai liguri per compiere l’opera di terrazzamento che ha consentito loro di coltivare quegli olivi il cui raccolto avrebbero goduto solo a distanza di generazioni; si tratta di «fatiche fatte sante» che edificano una «connessione con le anime che non ci sono ancora». Questo è un esempio concreto di ciò che significa connettersi col trascendente: l’azione diviene talmente proiettata nel futuro che questo trapassa in eternità e non ci si aspetta più da essa un ritorno, in modo che, dunque, l’opera passa dal suo essere anzitutto strumentale a divenire un fine in sé stessa. Nell’opera edificata col fine di scavalcare il tempo ci si connette con le generazioni che ancora non ci sono afferrandole come già presenti, eppure, simili monumenti non si trovano solo nelle grandi città: «la nostra cattedrale! Gli uliveti, folti, boscosi, d’argento per tutto! Avevamo fatto il nostro destino; il nostro destino era ora conchiuso; i padri finalmente avevano fissato il nostro destino. E noi fummo fra gli ulivi come un popolo antico nella sua cattedrale».

Quello Stato che saprà riattingere ad una simile motivazione, oculatamente indicandola come al di sopra di sé, non troverà al suo cospetto vincoli economici di sorta in grado di frenare il suo rifiorire e anzi potrà recuperare – stavolta senza ottusità ideologiche – quelle leve politiche in grado di garantire anche la dignità materiale della vita comunitaria, proprio nella misura in cui questa resti motivata dalle sue necessità spirituali.

1 Sul tema della differenza fra sacralità e santità si veda l’intervista a R. Brague in C. Cervellon, Interview with Rémi Brague, «Le philosophoire», 22, 1, 2004, pp. 25-45.

2 Ringrazio il Pedante per avermi fatto conoscere questo testo.

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