Mettete via i calici: il fallimento della Silicon Valley Bank non manderà sul lastrico né Zuckerberg né Gates né Bezos. Anzi, se ho un po' capito come funziona il circo, non è escludibile che possano addirittura uscirne rafforzati.
Facciamo un passo indietro. Silicon Valley è il nome con cui comunemente ci si riferisce al distretto tecnologico nell'area di San Francisco, sviluppatosi a partire dalla fine degli Anni '30 (eh sì, l'ingegneria elettronica non è affatto una "scoperta" recente) grazie all'impulso congiunto da parte dell'università di Stanford (che in Italia non è famosa quanto Harvard, ma che è comunque un gigantesco centro di potere internazionale) e del Dipartimento della Difesa USA. «Una volta qui era tutta campagna» definisce perfettamente la situazione della California settentrionale prima di allora: a parte i frutteti, non c'era un cazzo. L'immensa disponibilità di spazi a basso costo e il supporto delle amministrazioni locali hanno quindi progressivamente attirato nuove aziende alla ricerca di grandi superfici, le quali hanno dato vita ad un ecosistema strutturato ed autosufficiente rispetto alla costa orientale (New York e affini). Verso la fine degli Anni '50, la Silicon Valley riduce la propria dipendenza dalle commesse militari e inizia a rivolgersi al mondo delle grandi aziende e, infine, a partire dagli Anni '70, guida insieme al Giappone il processo della "computerizzazione" di massa. La storia recente è abbastanza nota a tutti: se oggi esistesse un Bossi californiano in grado di fare la secessione della Silicon Valley, il nuovo Stato entrerebbe immediatamente nella top-10 mondiale dei paesi con il PIL più alto e avrebbe un peso politico probabilmente maggiore di tutta l'Unione Europea messa assieme.
Come le mosche attirate dalla merda, indovinate chi non poteva assolutamente mancare in questa bella storia di successo? Esatto, le banche!
In realtà il rapporto tra Silicon Valley e mondo finanziario è sempre stato un po' anomalo. Prima del boom tecnologico negli Anni '80, le banche "tradizionali" nutrivano una certa perplessità verso i nerd californiani: non che mancassero i soldi ma, ecco, diciamo che si sarebbero sentite più a loro agio a lavorare con attività meno rischiose. La Silicon Valley Bank, fondata nel 1983, è stata effettivamente tra le prime banche a puntare esclusivamente su questo segmento offrendo prestiti, comprando azioni e investendo massicciamente sulle proprietà immobiliari (shhhh, non ditelo a nessuno: a breve esploderà anche una bolla immobiliare) senza doversi preoccupare troppo della concorrenza. In questa parte di mondo, tuttavia, chi dà veramente le carte (cioè i danari) non sono le banche come le intendiamo noi, bensì i fondi di venture capital. Se vi dico Goldman Sachs o Morgan Stanley, voi sapete benissimo cosa sono. Se però vi faccio i nomi di Sequoia Capital, Andreessen Horowitz o Accel, probabilmente dovete cercarli su Google (fun fact: ad un certo punto il più grande investitore esterno di Google è stato proprio Sequoia).
I venture capital funzionano approssimativamente così: hanno una valanga di soldi (capitale proprio o raccolto da altre società ed individui già esageratamente ricchi) con cui comprano azioni di startup semi-sconosciute. Più la startup è in fase embrionale, più i venture capital impongono condizioni a loro favorevoli. Magari hanno investito in 100 aziende diverse: di queste è probabile che 99 falliscano ma, se anche solo una sopravvive e si quota in borsa (con l'IPO, Initial Public Offering), il loro guadagno compensa abbondantemente tutte le altre perdite. Per fare un esempio, nel 2004 Zuckerberg ha venduto il 10% di Facebook ad un venture capital per 500.000 dollari: 8 anni dopo, quando Facebook ha fatto l'IPO, quel 10% valeva qualcosa come 10 miliardi di dollari. Prendete questo modello di investimento, applicatelo alle centinaia di società tecnologiche che si quotano in borsa ogni anno e capirete molto in fretta il peso economico di questi simpatici istituti.
Di fronte a tale questione, Nino, il fan inconsapevole dei mercati finanziari che pascola al bar in piazza, potrebbe dire: «Embè? Bravi loro, se hanno fatto 'sti soldi è perché se lo sono meritato! Mica come i politici che rubano!». Purtroppo, evidentemente, Nino non ha memoria di quella cosa chiamata "bolla delle dot com" che, nel giro di pochi anni a cavallo del 2000, ha bruciato circa 5 mila miliardi di dollari. In fondo, le crisi seguono tutte lo stesso pattern: all'aumentare della movimentazione di denaro dietro le quinte, diminuisce l'attenzione degli organi di vigilanza ed esplode la voglia di soldi facili da parte di piccoli e grandi investitori al grido di «Ma figurati se saltiamo in aria! E' matematicamente impossibile che tutti questi investitori si stiano sbagliando!». E invece…
Di per sé, dal punto di vista tecnico, la Silicon Valley Bank è rimasta incastrata dalla turbolenza del settore tech dopo gli ultimi anni di vacche grasse e dall'aumento dei tassi di interesse voluto dalla FED per arginare l'inflazione: le aziende avevano bisogno di smobilitare liquidità per fronteggiare il periodo, la banca aveva però investito quei soldi in titoli del tesoro nel frattempo svalutati e, quando ha cercato nuove iniezioni di cash, i mercati hanno risposto «no guarda, non è colpa tua ma proprio non ce la sentiamo». Risultato? Appena si è diffusa la notizia, è partita l'immancabile corsa agli sportelli (42 miliardi di dollari prelevati in poche ore) e la banca ha abbassato le saracinesche per sempre.
Ah, dicevamo di Zuckerberg, Gates e Bezos. Probabilmente, quando sono stati informati del fallimento della banca, hanno risposto con un «CHIII?!? Non li conosco!» degno del miglior Maurizio Mosca. Sapete perché? Perché, una volta che hai fatto i soldi con la Silicon Valley, tenerli in mezzo a quel tritacarne è da idioti. La vita da hacker/pirata nel garage è eccitante finché sei con le pezze al culo e puoi spendere i soldi degli altri; dopo devi diventare un filantropo e non puoi più prenderti certi rischi: se tutto va bene, i patrimoni dei nostri guru preferiti giacciono pigramente nei caveau di qualche banca fondata nel 1600 che garantisce un rendimento annuo blindato dello 0.0001%. E' lecito pensare che le azioni delle varie Facebook, Microsoft e Amazon perderanno valore nel breve periodo, ma ciò non è per forza un male dal loro punto di vista: diventa, al contrario, l'occasione perfetta per riacquistarne un po' dai mercati (il cosiddetto buyback) ad un prezzo vantaggioso e poi rivenderle quando le acque si saranno calmate. Soprattutto, si creano le condizioni per fare razzia dei competitor a corto di soldi in modo da rafforzare ulteriormente la propria posizione di monopolio.
Non è facile stabilire le conseguenze di questa vicenda: per non saper né leggere né scrivere, l'isteria delle borse ha in ogni caso mandato subito in rosso i listini delle piazze principali. Ovviamente, da Biden a Lagarde, stanno tutti suggerendo di mantenere la calma affinché non ci siano altri collassi improvvisi (che poi ce ne sono stati già altri due, vabbé): forse non sarà paragonabile alla bolla dot com o al crack di Lehman Brothers nel 2008, ma scommetto che in questo momento, nei quartieri generali delle banche di mezzo mondo, c'è un esercito di stagisti sottopagati che, immersi nel sudore, stanno controllando riga per riga i file Excel dal 2020 in poi per capire quanto sarà forte la botta. Indipendentemente da ciò che emergerà, è comunque curioso notare come il giochetto dei banchieri sia sempre lo stesso: drogano il mercato, confondono l'opinione pubblica con le campagne socialmente impegnate e poi scaricano le ripercussioni dei loro azzardi sulla collettività. Se proprio va male, restano per qualche tempo fuori dai radar (tanto con la liquidazione non hanno problemi ad arrivare a fine mese) e poi rientrano dalla porta sul retro - esattamente come ha fatto quell'ex manager di Lehman che si è riciclato, pensate che culo, proprio alla Silicon Valley Bank.
Volendo conservare un certo aplomb, si dovrebbe auspicare che tale instabilità resti limitata al settore tecnologico statunitense avviando, magari, una riflessione extra sulle responsabilità di Trump nell'alleggerire i controlli sulle banche (così, come passatempo): alla fine è molto probabile che, tra tutti i livelli coinvolti, ci siano anche i risparmi di qualche milione di disgraziati che hanno come unica colpa quella di aver aperto il conto corrente in banche gestite da incapaci. Un po' noioso, ma tant'è. In alternativa, come farò io, si può apertamente tifare per l'ennesimo effetto domino su scala mondiale: se i miei calcoli sono corretti, sarebbe l’ottava crisi globale negli ultimi 40 anni e la quinta negli ultimi 20. Va bene dire «Eh, ma non potevamo prevederla!» un paio di volte ma, quando si inizia a calcolare la distanza da una crisi all’altra in mesi, significa che il sistema è al capolinea e non può più essere salvato. Poi dopo ci inventeremo qualcosa, ma almeno ci togliamo da questa fogna.