Il termine metaverso è stato usato per la prima volta da Neal Stephenson nel suo libro Snow Crash, dove descrive una dimensione virtuale condivisa tramite internet e nella quale si può interagire con un proprio avatar.
La realtà che ci si palesa di fronte oggi non è diversa da quella che Neal Stephenson immaginava nel 1992, sappiamo tutti infatti dell’imminente lancio di una realtà virtuale chiamata metaverso, ad opera del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg. Stiamo assistendo da un po’ all’esplorazione di nuovi mercati, o meglio nuovi mondi, da parte dei grandi signori della silicon valley; Zuckerberg però a differenza di alcuni suoi compagni come Elon Musk e Richard Branson che si stanno focalizzando sulla ricerca in campo aerospaziale, ha deciso di puntare su un altro tipo di spazio: quello cibernetico.
In verità sul metaverso non abbiamo molte informazioni, oltre ad alcune linee generiche che sono di assoluta certezza, come il fatto che questa nuova realtà si annuncia persistente e in grado di suscitare esperienze pari a quelle provate nella vita reale; è infatti notizia non nuova che il team di Zuckerberg è al lavoro nella sperimentazione di strumenti che siano in grado di suscitare sensazioni tattili per un’interazione senza attriti con il mondo virtuale. Le opportunità che offrirà il metaverso sono molteplici: si va dal mondo dei videogames al mercato del lavoro, investimento ecc... Ma quale sarà il denaro utilizzato in questa simulazione? Tutti i pagamenti si effettueranno con le metaverse Crypto, delle monete virtuali che stanno proliferando proprio al momento della stesura di questo articolo.
Sul web si stanno osservando svariate analisi sui pro e contro di questo nuovo mondo; tuttavia, si denota la mancanza di una dimensione analatica più profonda, che vada a cogliere il sentimento che potrebbe portare nella nostra società una novità del genere. Prima di tutto si dovrebbe affrontare un’analisi di carattere sociologico, un aspetto questo troppo spesso dannosamente dimenticato. Ciò che il metaverso rischia di elargire su scala globale è un distaccamento così profondo dalla realtà che la differenza tra la medesima e la dimensione virtuale potrebbe non essere più percepibile, sfociando nella condizione che il filosofo Jean Baudrillard individuava con il termine iperrealtà.
Baudrillard suggellava la sua teoria affermando che in fondo non sarebbe così importante capire la differenza tra le due dimensioni, ovvero quella reale e virtuale, poiché l’essere umano trarrebbe più significato e valore dalla seconda. Il periodo in cui viviamo, definito come la fine della storia, potrebbe divenire invece la fine della realtà.
Come i miglior film di fantascienza hanno sempre rappresentato, potremmo trovarci di fronte ad un mondo iperurbanizzato, caotico e distopico dove a farlo da padrone sarebbe la connessione permanente. Questo mondo sarebbe caratterizzato da un controllo pervasivo, al quale lentamente siamo stati abituati senza accorgercene e dal quale molto difficilmente, se non utopisticamente ci sbarazzeremo. Gli individui assuefatti perciò da questa permeante e perennante dimensione distopica non avranno problemi a concedere i propri dati a cuor leggero, cedendo dinanzi ad un simulacro tecnologico i più basilari diritti civili e della privacy.
In questo processo contraddistinto da una rapidità senza precedenti, il ruolo degli stati sembra essere più che mai marginale, inchinati di fronte al potere acquisito dalle multinazionali che si sostituiscono, ogni giorno di più, al vecchio modello stato centrico e di fatto arrivano a dettare legge senza che ci sia una regolamentazione del loro agire. A riguardo scriveva John Barlow in A Declaration of the Independence of Cyberspace: "Quel vecchio mondo può legiferare e reprimere quanto vuole tanto non ha sovranità sul nuovo". Il mondo dominato da queste mega corporazioni non sarà sicuramente paragonabile a quello di celebri film come Blade Runner ma avrà sicuramente la stessa forma: una sorta di potere quasi assoluto di decisione sulle nostre vite.
Con il metaverso si rischia di trascendere ad una esperienza nella quale gli esseri umani non sono altro che fornitori di dati, amorfi, privi di una dimensione sociale che mai come ora sarebbe necessaria per sovvertire le tendenze degenerative del genere umano. L’essere connessi tutti quanti ad ogni costo ad internet ci porta su una strada ben lontana da quella che era stata disegnata primordialmente dai padri della rete. Ci troviamo deviati in un sentiero scosceso, diretto alla dimora di un padrone dall’aspetto amorevole ma in realtà assetato di controllo; una prospettiva questa che di fronte allo smarrimento della politica non più capace di indicare una via, sembra quasi desiderabile al fine di avere una disadorna apparenza di stabilità.
Lapalissiano è poi il fatto che oggi non vi sia una interconnessione dell’intera umanità in un’unica comunità, come era stato prospettato alle porte di una globalizzazione considerata prodromo dell’unione di tutti i popoli. Al contrario siamo molto divisi, in maniera sempre maggiore e proporzionale alla disconnessione di ognuno con il proprio sé. In fondo dobbiamo ammettere che l’uomo ha sempre vissuto in un mondo immerso anche dalla realtà “virtuale "infatti l’essere umano ha incessantemente cercato vie alternative all’orrore della realtà nuda e cruda, facendolo spesso per mezzo di un mondo simbolico al quale si accedeva e tutt’ora lo si fa per mezzo della lingua.
Quello che però differisce da un mondo simbolico improvvisato nel vano tentativo di negare la realtà è che l’iperrealtà appare come una dimensione reale più del reale stesso, nella quale rifugiarsi ogni qual volta la nostra vita prenda direzioni incontrollate e indesiderate. Questo ci porta al concreto presentimento che non solo la realtà possa essere assorbita in una Matrix prima o poi, ma che anche il mondo del simbolismo, tanto caro e prezioso all’uomo, possa essere spazzato via con conseguenze tutt’altro che piacevoli per l’individuo.