Un gruppo di poliziotti si presenta all’alba a casa di un privato cittadino, per notificargli un procedimento a suo carico. Alla richiesta di spiegazioni, l’uomo si sente rispondere che non c’è alcuna ipotesi di reato, si tratta di un NCHI (Non Crime Hate Incident), vale a dire un commento o un post sui social che ha offeso qualcuno. Ma quale sia, quando sia stato pubblicato, e da chi stato segnalato, questo le forze dell’ordine non sono autorizzate a comunicarglielo. Deve solo sapere che su di lui è stato aperto un fascicolo, che verranno fatti accertamenti sulle possibili conseguenze del suo commento, e che la sua attività sui social sarà attentamente monitorata.
Non si tratta di un remake di “1984”, con il terrificante “psicoreato” creato dalla fantasia di George Orwell, né di una fiction televisiva, è tutto reale. In Gran Bretagna vige dagli anni ‘90 un regolamento di polizia che disciplina i comportamenti potenzialmente offensivi di minoranze sessuali o razziali, comportamenti che pur non integrando fattispecie di reato, sono ritenuti suscettibili di arrecare offesa o violenza psicologica a soggetti appartenenti a tali minoranze.
Nelle scorse settimane, protagonista, suo malgrado, di una sgradita visita delle forze dell’ordine è stata la giornalista del “Telegraph” Allison Pearson, che ha prontamente denunciato sul suo giornale l’assurdità di tale forma di procedimento. La polizia ha poi precisato che in questo caso si era attivata non per un NCHI ma sulla base di un presunto crimine, peraltro sempre da includere nella categoria dei reati d’opinione. In ogni caso, l’episodio ha fatto emergere all’attenzione della opinione pubblica l’esistenza di una normativa assai controversa, a cui, da quando è approdato a Downing Street il governo laburista, si sta facendo massiccio ricorso.
L’origine del regolamento risale in realtà al 1999, e trae origine dall’omicidio di stampo razziale di un giovane di colore, Stephan Lawrence, avvenuto nel 1993 nella cittadina di Etham. Il fatto, oltre a provocare la giusta indignazione, indusse il governo conservatore di John Major a varare nuove misure contro il razzismo, tra le quali la più singolare fu proprio l’introduzione dei NCHI.
La censura del pensiero
Proprio a metà degli anni ’90 è emersa anche in Italia la spinta a contrastare il fenomeno della intolleranza razziale e in generale della comportamenti connessi a sentimenti di odio. In particolare, con la legge c.d. Mancino-Violante (legge n. 205 del 1993) sono state introdotte severe sanzioni penali per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga o incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Una normativa per la verità assai controversa fin dalla sua approvazione, e sulla quale sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale, in quanto suscettibile di avere introdotto nell’ordinamento nuove figure di reati di opinione. Per quanto discutibile sul piano della conformità ai principi costituzionali, la legge Mancino-Violante non può tuttavia essere confrontata con la fattispecie dei NCHI. Essa infatti, non solo promana da una fonte legislativa primaria, frutto di un voto parlamentare, ma, soprattutto, definisce i comportamenti in esame quali reati, fissandone i relativi di criteri di individuazione cui il giudice deve attenersi nella apertura di un procedimento, e ai quali può quindi fare riferimento l’imputato per contestare l’accusa.
La normativa inglese, al contrario, è contenuta in una fonte amministrativa secondaria, quale i regolamenti di polizia, e non è pertanto legittimata dal voto parlamentare. Peraltro, essa non prende in esame comportamenti penalmente rilevanti, e che quindi costituiscano reato. Ciò comporta da un lato che non sono previste sanzioni puntuali a carico del soggetto indagato, ma anche, di conseguenza, che quest’ultimo è privo di strumenti difensivi, in quanto i termini dell’accusa restano assolutamente generici, tanto che gli agenti non sono tenuti né a comunicare quale sia l’oggetto della indagine né a quando risalga il fatto. Del resto, ed è forse questo l’aspetto più inquietante di questa forma di perseguimento delle opinioni dei cittadini, il sistema si basa su accuse di singoli esponenti di minoranze, i quali percepiscano come offensivo un determinato comportamento o un’affermazione resa in pubblico o pubblicata sui social. In altri termini, l’offensività di una frase viene interamente rimessa all’arbitraria valutazione della presunta vittima.
Gli effetti paradossali e in molti casi assurdi di questo sistema emergono dalla cronaca di quotidiani e siti internet britannici, i quali riportano, ad esempio un procedimento NCHI aperto a carico di un bambino di 9 anni colpevole di avere chiamato “ritardato” un compagno di classe.
In sintesi, si tratta di episodi nel 90% dei casi privi di qualunque valenza oggettiva e che rientrano nella normale dialettica, sia pure talvolta sgradevole, che intercorre fra le persone. Ma nell’epoca dell’ideologia wokeista e della ossessione per la tutela delle minoranze, essi assurgono a fatti rilevanti, degni di mobilitare le forze di polizia, distogliendole da compiti molto più seri e impegnativi a difesa della sicurezza collettiva.
La libertà di pensiero nel mirino dell’agenda globalista
Ma quali sono le conseguenze dell’apertura di un procedimento NCHI? Come si è detto, non trattandosi di reati, il fascicolo non viene trasmesso al magistrato, e resta nelle disponibilità della polizia, che da quel momento si dedicherà ad un attento monitoraggio delle attività pubbliche del soggetto e, in particolare, delle sue esternazioni sui social, proprio per verificare eventuali “ricadute” in affermazioni offensive, che potrebbero meritare un ulteriore “incidente” o anche una vera e propria incriminazione per crimini d’odio.
In altri termini, i NCHI rappresentano uno strumento di controllo sulla libertà di pensiero del cittadino. Infatti, al di là dei casi di presunte offese personali a esponenti di minoranze, rileva la evidente portata intimidatoria generale di questo abnorme potere attribuito alla polizia. È del tutto evidente che, se si rischia un procedimento di polizia per avere ad esempio criticato, pur senza usare parole offensive, l’uso del velo delle donne islamiche, in quali limiti è ancora consentito esprimere opinioni dissonanti sulle politiche di integrazione degli immigrati?
Che la crociata contro la libertà di opinione rappresenti un punto qualificante dell’agenda progressista-globalista è ormai emerso con chiarezza ed è un obiettivo che non viene neanche più dissimulato.
Se nel Regno Unito il confine tra crimine d’odio (hate speech) e libertà di espressione si sposta sempre più verso la punibilità delle libere opinioni, ciò rientra in un quadro di strategia complessiva che i governi europei – su impulso di chi detiene il potere finanziario –perseguono già da alcuni anni. Il DSA – Digital Service Act, varato dal Parlamento europeo nel 2023, altro non si prefigge se non di assicurare una forma di controllo e di censura sui contenuti pubblicato dai social. Con il facile pretesto della lotta alle fake news e, appunto, alle varie forme di hate speech, la normativa europea mira a condizionare il dibattito pubblico, escludendo e comunque riducendo al silenzio le posizioni critiche e dissonanti rispetto alla narrazione dominante.
D’altronde, l’allergia del mondo progressista al libero confronto delle idee si è manifestata di recente, in modo abbastanza vistoso, quando molti esponenti e opinionisti di quell’ambiente hanno pubblicamente dichiarato il loro abbandono della piattaforma X (già Twitter), in polemica con il proprietario Elon Musk, colpevole di essere un alleato di Trump e di avere contribuito al suo successo elettorale. Quello che però li ha spinti a fuggire da X è, più verosimilmente, proprio la linea di Musk, che non prevede forme di censura sui contenuti del suo social. La precedente gestione, decisamente più apprezzata dal mondo progressista, non solo prevedeva pressanti forme di controllo e/o censura su contenuti sgraditi, ma era giunto a sospendere “in modo permanente” l’account di Donald Trump nel gennaio 2021.
Il pretesto del discorso d’odio per colpire il dissenso
Un fenomeno in parte assimilabile a quello dei NCHI inglesi, si registra in vari paesi europei fra cui la Germania (che è stato anche il primo paese europeo a dotarsi nel 2018 di una specifica legge contro l’Hate Speech su internet).
Il governo social-democratico di Scholz ha fatto ampio ricorso alla normativa che sanziona le offese ai pubblici funzionari, già vigente da tempo, ma mai così largamente utilizzata. Negli ultimi tre anni, sono stato aperti circa 1.300 procedimenti penali a carico di cittadini che avevano pubblicato frasi considerate ingiuriose nei confronti di ministri ed esponenti del governo.
Ciò che appare inquietante non è solo l’attivazione così massiccia di procedure giudiziarie per meri reati di opinione, quanto soprattutto le modalità alquanto brutali che sono state spesso messe in atto. Tra gli esempi più recenti, quello di un pensionato residente in Baviera – reo di avere postato sui social un meme nel quale il ministro Habeck, del partito ambientalista, veniva definito “imbecille” – che si è visto piombare in casa alle 6 del mattino un gruppo di poliziotti, che oltre a notificargli il procedimento gli hanno sequestrato computer e smartphone.
Inutile sottolineare che, in un paese come la Germania, metodi di questo tenore fanno inevitabilmente evocare pessimi ricordi.
Anche in Italia, naturalmente, il mondo progressista, spesso peraltro supportato da una parte non insignificante degli ambienti “conservatori”, manifesti notevole impegno nelle iniziative di “contrasto all’odio”, che tradotto vuol dire: più censura e deterrenza nei confronti delle opinioni dissenzienti.
Su questo fronte, va attentamente seguito l’evolversi delle attività della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismi e istigazione all’odio e alla violenza all’odio” che è stata istituita al Senato nella scorsa legislatura e ricostituita in quella attuale, sempre presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre.
Nella relazione conclusiva dei lavori, approvata il 22 giugno 2022, al termine di una panoramica dei vari fenomeni di odio e intolleranza emersi nel corso delle audizioni svolte, la Commissione rileva che “la principale risultanza dei lavori dell’indagine è la richiesta al Parlamento di un intervento normativo urgente. Nell’attesa che a livello sovranazionale si giunga ad una definizione giuridicamente vincolante dei discorsi d’odio, i lavori della Commissione hanno mostrato la necessità di intervenire nell’ambito del diritto interno. È necessaria una forte e condivisa iniziativa politica e legislativa, intorno ad alcune misure dirimenti che possono essere messe in campo per contrastare la diffusione dei discorsi d’odio”.
Inutile sottolineare che il nostro ordinamento già prevede una normativa – introdotta proprio dalla sopra citata legge Mancino-Violante – recante sanzioni severe per chi faccia propaganda a idee fondate sulla superiorità, o sull’odio razziale etnico o istiga ad atti i discriminazione per motivi razziali, etnici nazionali o religiosi. Gli strumenti per contrastare questi fenomeni dunque li abbiamo già, e possono essere applicati anche quando comportamenti di questo tipo vengano attuati attraverso l’uso della rete.
E invece, proprio la regolamentazione dei social sembra essere la preoccupazione principale che emerge dalle proposte di legge in tema di “lotta all’odio” presentate nell’attuale legislatura. In particolare, la più organica è quella dei senatori Boccia e Fina, del PD: “Misure per la prevenzione e il contrasto della diffusione di manifestazioni d’odio mediante la rete internet”.
Fra le disposizioni previste – la cui analisi complessiva ovviamente non può essere svolta in questa sede – va perlomeno evidenziato l’articolo 5, ove è previsto che “chiunque rilevi contenuti manifestamente illeciti… diffusi mediante la rete internet, può farne segnalazione al gestore del sito internet formulando espressa istanza on line… per l’adozione di tutte le misure dirette a impedire l’accesso ai contenuti dei siti internet o a rimuovere i contenuti medesimi”.
Si prevede in sostanza una sorta di whistleblowing di massa (sistema che sembra molto gradito ai progressisti), vale a dire un meccanismo di segnalazione spontanea di contenuti illeciti da parte di singoli individui.
Quanto al controllo sulla effettiva illiceità degli atti segnalati – ed è questa forse la diposizione più pericolosa del testo – lo si affida ad “un organismo di autoregolamentazione composto da un numero di analisti esperti dotati di ampie e diverse competenze e di esperienza”.
La proposta Boccia, in definitiva, vorrebbe delegare il vaglio e la eventuale censura della libera espressione delle proprie opinioni, tutelata dall’articolo 21 della costituzione, a un comitato di esperti e tecnici.
Tanto dovrebbe essere sufficiente a delineare le pulsioni fortemente autoritarie che emergono da tutto il proliferare di iniziative e proposte che, strumentalizzando l’intento della lotta all’odio, palesano una sempre più evidente volontà di controllo e compressione della libertà di opinione. Strategia funzionale alla imposizione della narrazione dominante, che, peraltro, vive una fase di grande affanno, in linea con la crescente perdita di credibilità degli organi di stampa, platealmente confermata dagli esiti delle recenti elezioni americane.