Parliamo di guerra

La schizofrenia sulla guerra delle élite europee lo specchio del loro spaesamento

La schizofrenia sulla guerra delle élite europee lo specchio del loro spaesamento

Domenica 24 Marzo 2024

Che sia attraverso i quotidiani, i complessi report di qualche think tank o la sciatta propaganda di qualche influencer, oggi non si fa che parlare di guerra. La linea dei media mainstream è chiara: Putin è il nuovo Hitler che si appresta a distruggere il nostro “giardino ordinato” e noi, l’Europa della libertà, siamo chiamati a fermarlo. Sembra non essere in discussione “se” avvieremo una guerra di lunga durata contro la Russia, solo “quando” e “come” sono oggetto di dibattito. Il 19 marzo un irriconoscibile Ernesto Galli della Loggia, nel suo editoriale sul Corriere della Sera, spiegava che l’opinione pubblica italiana, largamente contraria alla guerra e in generale alla gestione dei recenti conflitti, semplicemente sbaglia. Il motivo? Perché “alla fine la vera ragione per cui ci affrettiamo a invocare ad ogni occasione la pace, il negoziato, la fine del «genocidio», la «Palestina libera dal fiume al mare» o qualunque altra cosa torni comoda allo spietato barbaro di turno, è una sola: perché abbiamo paura che la prossima volta egli magari bussi alla nostra porta.” Quindi conigli, oltre che allocchi. E io che ero rimasto a quando ci chiamavano “cicale” (c’è da perdersi in questa deriva zoologica). E, di lì a poco, anche il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha affermato “Se vogliamo la pace prepariamoci alla guerra”, andando a rafforzare quanto ventilato da Macron in merito alla possibilità di inviare (ufficialmente) truppe in Ucraina. Insomma, la direzione è chiara: l’Europa deve scendere in guerra.

Chiunque vanti ancora un briciolo di pensiero critico non può che roteare gli occhi di fronte alla sfacciata propaganda cui siamo sottoposti: una propaganda incoerente, sciatta, urlata e manifestamente violenta. Fino a pochi anni fa, in nome della “prudenza”, era lecito perseguitare chiunque pensasse di uscire di casa per farsi una salutare corsetta, mentre oggi non ci si pone alcun problema nell’accarezzare l’idea di un conflitto corpo a corpo con una superpotenza nucleare. In queste dinamiche gli ottimisti leggono i segni di un sistema di potere declinante, i pessimisti ne deducono il crollo della capacità critica delle masse, ormai pronte a bersi qualunque cosa. Due facce della stessa medaglia: nessuna delle due letture, infatti, lascia spazio e valore all’azione. Sono due declinazioni dello stesso pensiero passivo, quello che vede un risultato già scritto nella storia e suggerisce soltanto di aspettare che si realizzi senza far nulla. Sterile idealismo? Tutt’altro: quello che propongo è mero realismo. Sedersi ed aspettare non è mai la soluzione, bisogna agire. Possibilmente senza scadere nel “facciamoqualcosismo”, l’approccio di chi suggerisce di fare qualsiasi cosa pur di fare qualcosa, ma assicurandosi sempre di fare il punto della situazione.

A chiunque intenda analizzare questa fase storica senza paraocchi alcuni elementi non possono proprio sfuggire. A partire dal fatto che gli USA hanno messo in conto la prospettiva di un confronto diretto con la Cina e che, di conseguenza, hanno bisogno di razionalizzare le forze. I fronti aperti dagli yankee in giro per il mondo sono troppi, quindi anche a Washington si sono messi in testa che anche i clientes dell’impero debbano cominciare a fare la propria parte. Si noti che sotto questo profilo le differenze fra Biden e Trump sono minime, a ulteriore dimostrazione che chi spera di potersi disinteressare di quanto accade attorno a noi perché vede in Trump il “salvatore straniero” delle nostre sorti non ha, ancora una volta, capito nulla. Gli Stati Uniti, grazie alla loro politica di incentivi fiscali, alla finanziarizzazione dell’economia europea, alle politiche suicide dell’UE (in particolar modo sul fronte energetico), hanno ottenuto enormi vantaggi spremendo come un limone il vecchio continente. Che, sebbene mostri evidenti segni di sofferenza, appare decisamente restio all’idea di sottrarsi a questa spremitura.

A questo punto si pone però un problema. Come fanno degli Stati che hanno raccontato per anni alla propria popolazione che le uniche lotte sensate erano quelle per l’ambiente e i diritti civili, che hanno elevato l’austerity a religione e che si stanno deindustrializzando e finanziarizzando, a rimangiarsi tutto quanto? Perché è chiaro come il sole che per prepararsi a questa nuova “postura di guerra” occorre:
1. Riscoprire il patriottismo, in quanto serve essere realmente convinti di esser nel giusto per esser disposti a rischiare la vita.
2. Riabilitare spesa pubblica e pianificazione industriale, che passano da bestemmie a parole d’ordine.
Già adesso, nel dibattito in seno ai think tank che contano, stiamo assistendo alla negazione totale di quei dogmi economici che fino a quattro anni fa sembravano insuperabili. La stessa transizione ecologica, cardine dell’ultimo decennio di attività normativa di Bruxelles e Strasburgo, viene, nel silenzio generale, diluita e procrastinata. Ufficialmente resta una priorità, ma l’andazzo è chiarissimo a chi non ha il prosciutto, tagliato spesso, poggiato sugli occhi.

Uno degli scenari in cui potrebbe scaturire questa situazione è quello in cui le élite europee, nel tentativo di mantenersi al potere pur rimanendo incapaci di vedere un futuro che non sia completamente subalterno a Washington, scelgano di abbracciare questa transizione militare in qualità di unica via che gli USA sono disposti a concedere al Vecchio Continente. Può darsi, ma personalmente ho qualche dubbio. Non foss’altro perché le principali industrie belliche sono americane, quindi ho il presentimento che buona parte dei soldi prenderanno comunque il largo nell’atlantico (per quanto indubbiamente aziende come Leonardo avranno il vento in poppa a lungo, come suggerisce l’andamento del settore in borsa).
C’è poi la prospettiva di sfruttare questa crisi per premere l’acceleratore sul processo di integrazione europea. Anche qui, dal mio punto di vista, si tratta più che altro di una paura di noi euroscettici. Da un lato, infatti, il rinnovato bisogno di identità per supportare la transizione bellica è incompatibile con l’irenica visione di un’Europa unita, dall’altro le necessità strategiche dei Paesi europei quando la tensione aumenta si fanno sempre più diverse e divergenti.

Nei fatti, ad oggi l’unica priorità delle cancellerie europee sembra quella di ridurre al minimo la possibilità di tornare indietro, di ripristinare gli equilibri antecedenti al febbraio 2022. La minaccia dell’invio di truppe francesi e di altri paesi in Ucraina si inserisce in questo solco, secondo un modus operandi a cui, purtroppo, siamo stati tragicamente abituati. Mi è difficile spingersi oltre nell’analisi perché – lo ammetto – non riesco a capacitarmi di quale sia lo scenario auspicato dalle amministrazioni dei Paesi dell’Europa occidentale. Davvero si ritiene possibile portare avanti un’escalation controllata con la Russia mentre gli USA si concentrano sulla Cina? Perché mai la Russia dovrebbe ritirarsi di fronte alla “magnificenza” delle nostre armate, accettare una pace che preveda il riconoscimento delle proprie colpe, intraprendere una nuova perestrojka e magari scomparire come soggetto federale in una miriade di staterelli in conflitto? Tutti i russi che hanno memoria di quel periodo farebbero di tutto per scongiurarne il ritorno. Le classi dirigenti alle nostre longitudini però pensano i russi come dei parigini o dei londinesi che, sfortunati, aspettano solo il nostro aiuto per poter finalmente vivere come noi. Un razzismo manifesto che, oltre che patetico, si rivela molto pericoloso.

Paesi come la Francia sono pervasi da ondate di mobilitazione, segno di un malessere diffuso, scatenate da quelle che si possono catalogare come inezie se confrontate con una guerra vera e propria. Una generazione cresciuta all’insegna della lotta al patriarcato non metterà facilmente l’elmetto per morire in trincea. E perché dovrebbe farlo? Negli ultimi decenni sono state demonizzate tutte le leve motivazionali che permettono di concepire la morte, specie per un ideale, come sensata e, dunque, accettabile. Così come lo stesso amor di patria, che fa pensare alla morte per la sua difesa con fierezza e, di certo, con meno orrore. Non è un caso se lo stesso esercito americano pesca il grosso dei propri effettivi dagli stati che l’élite liberal a stelle e strisce guarda con disprezzo. Ci siamo assuefatti all’idea che la guerra sia solo una questione di mezzi e non di persone ma, presto o tardi, torneremo a scoprire che non è proprio così.

Come uscirne? Beh, di sicuro non serve a granché inveire contro il destino cinico e baro. La prima cosa da fare è prendere atto della situazione. E poi c’è da porsi la domanda più difficile: “Io voglio fare qualcosa?”

“Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!”, esclamò Frodo.
“Anch’io”, annuì Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato.”

J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli

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