Scorrendo la storia geologica del nostro pianeta, per ritrovare un intervallo di tempo caratterizzato da un clima mite, da un livello dei mari e degli oceani paragonabile a quello odierno e da una quantità di CO2 dispersa nell’aria simile all’attuale, bisogna tornare indietro di circa 300 milioni di anni, fino alla fase terminale del periodo denominato Carbonifero. Come oggi, anche allora esistevano una fascia tropicale calda, una temperata alle medie latitudini e una fredda a quelle estreme, circa il 30% della superficie terrestre si trovava sopra il livello del mare e periodicamente i ghiacciai avanzavano e si ritiravano. Esattamente come avviene ora, da un milione di anni a questa parte.
Dopo il Carbonifero, dal Permiano fino a circa un milione di anni fa, le cose andarono diversamente. Le temperature si alzarono fino a generare un clima caldo umido generalizzato, le calotte polari scomparvero, la neve anche in alta montagna divenne una rarità (e ciò spiega il motivo per cui i dinosauri non praticassero lo sci), il livello dei mari salì fino a superare di 200 metri quello medio attuale lasciando fuori dall'acqua solo il 18% della superficie terrestre, la quantità di CO2 nell’atmosfera si spinse a livelli da 4 a 6 volte superiori a quelli odierni. I fenomeni atmosferici divennero violentissimi, con una stagione secca, che durava mesi, dalle temperature medie intorno ai 45-50 gradi °C, e una piovosa caratterizzata da megamonsoni, simili a quelli che oggi colpiscono l’area dell’Oceano Indiano, ma molto, molto più intensi. Tutto ciò fu sicuramente collegato alla massiccia attività vulcanica che accompagnò la rottura del supercontinente Pangea, con il rilascio di gigantesche quantità di gas serra nell’atmosfera, l’emissione di enormi volumi di lava che produssero l’innalzamento dei fondali oceanici e lo stravolgimento della circolazione delle correnti marine.
Eh già: la Natura non è la benevola madre che gretini e ambientalisti dell’happy hour dipingono. La Natura è una vecchia matrigna capricciosa che se ne frega di tutto e di tutti.
Un fatto è certo: una civiltà come quella attuale non sarebbe potuta sopravvivere a sconvolgimenti naturali di quella portata. Perché? Perché la nostra è una società fragile, in cui basta una grandinata o una pioggia più intensa del solito per mettere in crisi intere regioni, in cui anche l’innalzamento di pochi metri del livello del mare potrebbe mettere a rischio centinaia di milioni di persone.
Per nostra fortuna, non stiamo vivendo in un periodo di grande instabilità climatica. Tutt’altro. È la nostra struttura sociale che è particolarmente sensibile a sollecitazioni esterne appena fuori dall’ordinario. Che poi è la definizione di fragilità. E questa fragilità estrema viene sempre più esasperata dalla spinta acritica verso l’elettrificazione di ogni dispositivo e la digitalizzazione di ogni aspetto delle nostre vite. Fra vent’anni, se la tendenza proseguirà, basterà un blackout di un paio di settimane, magari dovuto a un brillamento solare un po’ più intenso dell’ordinario, per portare al collasso la nostra società.
Le classi dirigenti occidentali sono convinte che si possa davvero controllare tutto, persino il clima. Con una mentalità e una presunzione degne di un burocrate sovietico, immaginano di poter orientare il futuro del mondo controllando rigidamente i movimenti, i mezzi di trasporto, le abitudini alimentari, il conto corrente e tutte le attività che scandiscono le vite delle persone.
Presto o tardi dovranno farci i conti: là fuori c'è ben altro.