Il 4 novembre ci giunge, logora di fango e sangue, una lettera vecchia più di cent’anni. Su di essa sono riportati i nomi di centinaia di migliaia di soldati italiani, morti sotto le nevi alpine, nelle trincee, aggrappati ai fili spinati, sul fondo di un fiume. Alcuni di questi nomi non sono che semplici “X”. Perché tanti dei nostri soldati, all’epoca, non sapevano né leggere né scrivere. Erano contadini, uomini semplici, catapultati improvvisamente in un inferno in cui vigeva la fredda regola del “mors tua, vita mea”.
La lettera che abbiamo tra le mani non vuole incitarci a celebrare il massacro della guerra, come pensano gli idioti globalisti che in queste ore stanno ragliando sui social, né a sventolare il tricolore per poi riporlo il giorno dopo, come stanno facendo certi patrioti della Domenica.
La lettera dei nostri avi ci chiede una sola cosa: “non dimenticateci!”.
Perché è questo l’affronto più vile che si possa fare alla memoria dei caduti italiani: l’oblio. Relegare quei soldati ad un semplice capoverso di un libro di Storia, marchiare il loro sacrificio come “inutile”, mischiare alle loro lacrime la retorica nichilista da una parte e il fanatismo dall’altra, conficcare nelle loro piaghe un paternalismo e un pietismo che mai avrebbero voluto sentire.
Viviamo un’epoca terribile per chiunque voglia preservare la memoria del passato. Una voce stridula e costante scandisce nelle orecchie di tutti noi gli ordini della religione globalista: cancellare, livellare, sradicare, appiattire. Dimenticare.
Ogni accenno al senso dell’onore e all’orgoglio che ha pervaso le vene di quei combattenti finisce nel gorgo nullificante di chi odia l’Italia. O nello sciovinismo autoreferenziale di chi la usa per il proprio tornaconto. Invece ognuno di quei nomi, scritti a mano sotto le bombe e nelle peggiori privazioni, continua a chiederci semplicemente: “non dimenticateci!”
È vero, molti dei soldati partiti al fronte erano all’oscuro di ciò per cui avrebbero dovuto sparare. Ma lo capirono lì, nelle trincee. Dove si riscoprirono fratelli di altri italiani, tra decine di dialetti, migliaia di storie di vita. Dove piemontesi e siciliani, toscani e romani, napoletani e lombardi maledissero assieme generali incompetenti e disumani, tennero duro quando altri fuggivano, conquistarono cime ghiacciate. E scrissero lettere ai loro cari, cercando in ogni modo di descrivere l’orrore che stavano vivendo e trasmettendo al contempo una dignità commovente, di cui oggi avremmo tanto bisogno.
Il grande scrittore Ernest Hemingway combattè a fianco delle truppe italiane e fu colpito dal loro coraggio, tanto da scrivere: “Gli italiani hanno mostrato al mondo quello che sanno fare. Le loro sono le truppe più coraggiose di tutti gli eserciti alleati.” E c’è da rimanere senza parole di fronte alla forza d’animo con cui un esercito sbandato dopo la rotta di Caporetto seppe risollevarsi, trovare nuova linfa, piantare i piedi a terra e trasformare il Piave in un bastione invalicabile. È lì che tutto cambiò. È lì che ci battemmo come mai nella nostra Storia, per la nostra terra e i nostri cari.
Vittorio Veneto fu solo l’ultimo capitolo di un sacrificio immane partorito da cuori semplici e coraggiosi, come quelli dei ragazzi del 99, giovanissimi chiamati a difendere l’ultima linea del fronte.
Fa riflettere come lo spirito di rivalsa rinacque quando, a guidare i soldati d’Italia, fu posto Armando Diaz. Il suo predecessore, Luigi Cadorna, passò alla Storia come l’esempio del generale sprezzante della vita dei suoi uomini, che considerava come carne da cannone da gettare in pasto alle mitragliatrici nemiche, inutili illetterati incapaci di capire tattiche e strategie puntualmente fallimentari. Diaz, invece, ascoltò le truppe, visse i loro disagi, trattò quei logori combattenti per ciò che erano: uomini. E accese in loro un fuoco che protesse l’Italia dall’aquila austriaca e portò infine la vittoria. Una lezione, questa, che una certa parte del nostro paese, allergica alla voce del popolo, dovrebbe apprendere.
La lettera di un secolo fa ci parla di adulti e ragazzi come noi. E ci parla di Patria. Una Patria fatta di case da rivedere, famiglie da proteggere, figli da riabbracciare, amori da ritrovare, fratelli da soccorrere. Perché questo è il significato più profondo del termine “Patria“: la terra dei padri. Una linea che ci lega a tutto ciò che è stato prima di noi e a tutto ciò che avverrà qui, su questa terra, quando non ci saremo più. Anche le tragedie e i momenti più bui, che lo si capisca oppure no, fanno parte di questa linea.
“Non dimenticateci!”
Ora, possiamo scegliere di stracciare la lettera che stiamo leggendo e disperderne i brandelli nel vento. E spezzare per sempre quella linea che ci lega al passato. Qualcuno applaudirà estasiato, statene certi.
Oppure possiamo scegliere di tenere la lettera con noi. E rileggerla ogniqualvolta qualcuno provi a mettere in discussione l’esistenza stessa di tutto ciò per cui 650.000 soldati italiani hanno perso la vita. Non le medaglie, non le fanfare, non le targhe dorate. Bensì l’Italia e tutto ciò che, per ognuno di loro, essa rappresentava.
Non dimentichiamoli.