Ai giovani l'amor patrio

La fuga dei giovani dall'Italia è il sintomo di un'Italia che ha smesso di riconoscersi

La fuga dei giovani dall'Italia è il sintomo di un'Italia che ha smesso di riconoscersi

Sabato 29 Novembre 2025

La fuga dei giovani dall’Italia viene sempre raccontata come un fatto economico. Stipendi bassi, opportunità scarse, precarietà strutturale, ricerca sottofinanziata.
Tutto vero, ma non sufficiente.
Il problema non è solo che l’Italia non trattiene i suoi talenti. È che sta smarrendo la capacità di generare in essi un legame d’amore verso il luogo in cui abitano.
In un’epoca che celebra il nomadismo globale e l’appartenenza fluida come virtù progressiste, qualsiasi rivendicazione di amor patrio viene immediatamente sospettata di provincialismo o di chiusura identitaria.

La sociologia classica lo avrebbe definito un problema di integrazione (Durkheim) o di habitus (Bourdieu), il venir meno di quel legame che unisce l’individuo al proprio contesto. Le persone non scappano esclusivamente perché altrove si guadagna meglio. Scappano quando non amano più il posto in cui vivono, o quando sentono che quel posto non le ama, non le vede, non le riconosce.
Come ricordava Marc Augé, esiste una differenza profonda tra un luogo e un non-luogo. Il primo è radicato nella memoria e nella relazione, il secondo è lo spazio anonimo del transito e del consumo. L’Italia rischia di diventare un non-luogo per i suoi figli più brillanti. Un semplice punto di partenza sulla mappa globale, privo di quell’anima capace di chiedere un impegno duraturo.

I luoghi non sono coordinate geografiche.
Sono entità culturali, trame simboliche che si percepiscono solo quando ci si sente parte di una comunità.
Byung-Chul Han descrive la nostra epoca come una “società della prestazione”, in cui l’individuo è costretto alla mobilità continua e alla competizione permanente.
Radicarsi diventa quasi un atto di disobbedienza.
In questo orizzonte, il territorio si dissolve in una piattaforma economica che non chiede appartenenza ma consumo. E dove non c’è appartenenza, la fuga diventa il gesto naturale quando le cose si complicano.

Il problema è che l’Italia ha smarrito la propria idea originaria di casa. E ha trasformato l’amor patrio in un concetto sospetto, quasi fosse un residuo tossico del Novecento. La deriva è nota. Confondere il legame affettivo verso il proprio territorio con il nazionalismo aggressivo. Ma è un errore, se vogliamo dire, antropologico. Aristotele vedeva nella polis il luogo della vita buona, Tocqueville ricordava che la democrazia si fonda sull’impegno locale dei cittadini, la sociologia più recente parla di attaccamento al Luogo ("place attachment") come base della fiducia sociale. Quando questo legame si spezza, l’esodo diventa non solo possibile, ma addirittura logico. Non perché i giovani non trovino opportunità, ma perché non trovano un motivo per restare. Una società che non genera amore per sé stessa non trattiene nessuno.

Qui emerge il punto decisivo.
Non esistono “altri” che debbano restituire ai giovani un Paese vivibile. Le nuove generazioni non sono beneficiarie passive di un risarcimento. Non devono aspettare che qualcuno aggiusti ciò che non funziona. Devono prendersi il Paese, assumersene il compito, come è sempre accaduto in ogni comunità che ha saputo rigenerarsi. Nessuna società si salva senza l’azione diretta di chi la abita.

Alla fine, amor patrio significa proprio questo. Essere disposti a impegnarsi.
In un contesto italiano, l’impegno è l’antitesi della fuga. È un atto profondamente politico e, in un certo senso, pericoloso proprio perché sovverte la logica dell’abbandono e del disimpegno, che è funzionale a un sistema globale che prospera sull’indifferenza verso i luoghi e sulla pura mobilità del capitale finanziario e delle persone.

Amare il proprio paese non significa idealizzarlo, ma rifiutare la logica dell’abbandono. Significa lavorare per un’idea di comunità che non esiste ancora pienamente, ma verso cui si tende.
È un atto di fede nel possibile.

Questo impegno però non nasce da solo. Esige una trasmissione, una predisposizione simbolica. L’unica eredità reale che le generazioni adulte possono dare è l’amore per la patria, inteso non come retorica, ma come consapevolezza che la propria terra merita cura.
L’impegno deve venire dai giovani, certo, ma senza un’eredità affettiva nessun compito può essere assunto. La patria non è un bene da ricevere. È un lavoro da fare. È responsabilità condivisa. È ciò che permette di ricostruire scuole, università, ricerca, comunità locali.

La fuga dei cervelli non si arresta con incentivi fiscali o slogan di marketing. Si arresta quando un territorio torna a essere vissuto come casa, quando una comunità recupera il proprio amore per sé stessa, quando le nuove generazioni sentono che prendere in mano il Paese non è un atto di rassegnazione ma una scelta di appartenenza. Amor patrio, liberato dalle sue deformazioni, è la base per renderlo possibile.

Se c’è un modo per affrontare davvero l’emigrazione giovanile, non sta nell’attendere miracoli dall’alto né nel rassegnarsi alla diaspora. Sta nel ricostruire un legame affettivo con il proprio paese, nel ridare alla parola patria il suo senso originario. Non un oggetto ideologico, ma un compito da assumere.
Senza questo, la fuga dei cervelli continuerà a essere il sintomo più evidente di un’Italia che ha smesso di riconoscersi.

Non serve nostalgia.
Serve un nuovo inizio affettivo, un progetto culturale di rigenerazione del legame con il luogo.
Perché una comunità capace di dire “noi” diventa un luogo in cui vale la pena restare.
Solo ciò che si ama si difende. Solo ciò che si difende può tornare a crescere.

E l’Italia, oggi, ha urgente bisogno di entrambi.

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