Cateno De Luca, il civichismo e lo Zeitgeist

Dalla fine (apparente) della partitocrazia alle liste civiche che si scoprono ciniche e sognano in grande

Dalla fine (apparente) della partitocrazia alle liste civiche che si scoprono ciniche e sognano in grande

Giovedì 6 Giugno 2024

Ogni volta che leggo un libro dei nuovi enfant prodige del populismo italiano, esattamente come accaduto l'estate scorsa con "Il mondo al contrario", riesco a rimanere imparziale fino a circa metà. 

Io ci provo a finirli prima di esprimere un giudizio - eccome se ci provo! - ma, per dirla alla Richard Benson, ad un certo punto scatta una molla nel mio cervello e mi contraddico. Con "Non tutto è successo!" di Cateno De Luca - sindaco di Taormina e promotore del listone "Libertà" per le Europee 2024 - la molla è scattata a pagina 113 (su 298) leggendo la storia avventurosa della sua candidatura a Santa Teresa di Riva alle Amministrative del 2012.

Io non sapevo cosa fosse Santa Teresa di Riva. Non lo so ancora adesso, se è per questo. Magari è il posto più bello della Sicilia. So solo che Wikipedia mi dice che ha 9 mila abitanti (come gli abbonati del Chievo Verona durante l'ultima stagione in Serie A) ma nella pagine enfatiche dell'autobiografia di De Luca pare che ne abbia 9 milioni. La sua vittoria (con uno scarto di poco superiore al centinaio di voti sul secondo) dovrebbe avere un che di miracoloso: d'altronde, ed è lui stesso a dirlo, la scelta di candidarsi è maturata dopo una «visione durante la Via Crucis». Per carità, a me sta bene - da Costantino in poi, il falegname di Nazareth è stato uno spin doctor molto gettonato - ma, forse per un limite mio, non riuscirò mai a capire perché un politico "devoto" dovrebbe essere considerato automaticamente anche un politico "ispirato". Almeno la fede di De Luca pare sincera, a differenza di Salvini che si limona il crocifisso quando è in crisi di visibilità. 

Sorvolando su questo aspetto, l'esperienza a Santa Teresa di Riva assume rilevanza particolare nella nascita di quello che viene definito il "metodo De Luca". Ovvero, sempre citando l'autore, un metodo di gestione della cosa pubblica che si basa sullo slogan «cinque anni e non un giorno di più»: De Luca si propone agli elettori come il "podestà forestiero" (letteralmente: dice di non aver mai tolto la residenza da Fiumedinisi, suo comune di origine) che risolverà le magagne del luogo dopodiché, alla fine del mandato, lascerà il posto ad un successore autoctono cresciuto, nel frattempo, a sua immagine e somiglianza. In effetti il format si rivela efficace e, soprattutto, rispettato: De Luca riporta un lungo elenco di obiettivi raggiunti (investimenti, risanamenti, progetti di riqualificazione, infrastrutture, servizi, …) sia a Santa Teresa di Riva che a Messina (dove è stato eletto sindaco nel 2018) e i risultati elettorali confermano la soddisfazione dei cittadini. L'erede deluchiano a Santa Teresa di Riva ha preso il 70% dei voti sia nel 2017 che nel 2022; quello designato per Messina ha invece vinto - anche lui nel 2022 - con il 45%. Succederà anche a Taormina nel 2028? Non ho alcun motivo di dubitarne. E dirò di più: se dopo vorrà mettersi alla prova anche in un comune del Nord, sarei felicissimo se scegliesse il mio. Così, per ridere. 

Il punto è che questa non è politica. E non è nemmeno antipolitica. È un qualcosa di indefinito a metà strada che vorrebbe elevarsi a "prassi" ma che rischia di restare schiacciata sotto le sue stesse incongruenze o, in altre parole, di finire la benzina molto in fretta quando proverà a fare il grande salto dalla dimensione locale a quella nazionale. Nessuno lo nota - né lo vuole notare - perché il De Luca "personaggio" viene percepito come:

- un self-made man (e agli italiani questa cosa piace) 

- un comunicatore polarizzante (e agli italiani questa cosa piace) 

- una vittima della malagiustizia (e agli italiani questa cosa piace) 

- un vincente (e agli italiani questa cosa piace).

Un po' Berlusconi e un po' Renzi, più Bossi che Grillo, foto di Papa Wojtyla e frasi di Marchionne, senza mai dimenticare le lezioni imparate nella cantera della Democrazia Cristiana siciliana: De Luca gioca una partita "strana", tutta sua, che per mancanza di alternative rilevanti (o, quantomeno, degne di nota) appare come l'unica vera novità nel panorama politico italiano. Di chi dovremmo parlare, orsù? Di Vannacci? Completata la prossima "missione speciale" - ovvero attrarre abbastanza voti per far sì che la Lega rimanga la seconda forza nel centrodestra ed evitare che il Capitone venga defenestrato - il suo peso specifico nelle vicende nostrane diventerà pari a quello di Iva Zanicchi quando era Europarlamentare per Forza Italia. Come dite? Non sapevate che la Oberst-Gruppenführer dei prezzi correnti sulle reti Mediaset ha fatto la schiacciabottoni a Strasburgo per sei anni? Ecco, appunto. 

In realtà, basta un'analisi leggermente più attenta per capire che il nostro nuovo amico della Trinacria non si sta inventando un bel niente ma, al contrario, sta cercando di ravvivare e potenziare una delle peggiori abitudini regalateci dalla Seconda Repubblica: il "civichismo", ovvero l'uso esasperato di liste civiche per compensare - non sempre in maniera disinteressata o funzionale - la crisi di legittimazione istituzionale dei partiti. 

Per comprendere questo fenomeno bisogna partire, tanto per cambiare, dal 1992. Tra le tante questioni affrontate in quel pazzo anno di pazzia, una delle più interessanti riguardava la riforma elettorale degli enti locali: essa avrebbe dovuto superare il vecchio sistema favorendo la nascita di modelli più vicini alle rinnovate "sensibilità" della società circa il rapporto tra cittadini e rappresentanti. 

Per quasi mezzo secolo, gli italiani hanno infatti votato solo la composizione del Consiglio Comunale della propria città lasciandogli, in pratica, una delega in bianco nella determinazione della maggioranza e nella scelta di chi avrebbe quindi ricoperto il ruolo di sindaco. Pur prevedendo la presenza di liste civiche locali così come la possibilità, per i consiglieri eletti, di operare come indipendenti, tale configurazione favoriva una profonda penetrazione dei partiti anche in contesti demograficamente secondari replicando - in piccolo - le dinamiche della politica nazionale: in alcuni comuni di campagna magari mancava ancora la fognatura, ma non il sindaco della Democrazia Cristiana e l'opposizione del Partito Comunista (o viceversa). Mentre nel 2024 la presenza dei simboli di Fratelli d'Italia e del Partito Democratico alle Amministrative in un micro-comune ci farebbe scompisciare, all'epoca era la normalità accettata: anzi, una loro eventuale assenza sulle schede avrebbe suscitato dei malumori. Ah, l'affluenza media in Italia era superiore all'80%.

Poi caddero i muri, esplosero le bombe, scattarono le manette e tutto fu rimesso in discussione, sia dall'alto che dal basso. Come atto di buona volontà per porre le basi di un nuovo corso, il Parlamento decise di riconoscere un peso maggiore alle matite copiative degli italiani: dal 1993 in avanti i sindaci sarebbero stati ad elezione diretta, così da obbligare i partiti a prendersi la responsabilità delle alleanze, dei candidati e dei programmi prima delle processioni ai seggi. È il meccanismo con cui conviviamo attualmente, dunque non sto a rispiegarvelo: da un lato ha creato una forte personalizzazione del voto («faccio la X su Tizio perché mi ispira più fiducia di Caio, anche se chi lo appoggia non mi piace»), dall'altro non ha minimamente risolto il problema della partecipazione (già al primo giro di giostra con le nuove regole si registrò un netto calo dell'affluenza; oggi si galleggia attorno al 50%).

Qualcuno dice che è stata una nobile e lungimirante riforma che il popolo non è mai stato in grado di apprezzare appieno; io dico che è una stronzata e le pagine del TUEL (Testo Unico degli Enti Locali) me lo confermano. Gli ambiti di competenza delle amministrazioni comunali - e relativi margini di manovra - sono infatti ormai ridotti ad un lumicino: mettiamoci pure il dissesto finanziario cronico degli enti e si intuisce molto in fretta come tale "concessione" non debba aver provocato chissà quale shock nelle segreterie dei partiti. Più probabile che sia stata accolta come una formidabile occasione per sottrarsi subdolamente al giudizio degli elettori rafforzando comunque il loro ruolo di decisori dietro le quinte: è proprio in questo contesto che le liste civiche iniziano ad assumere un'insolita centralità. 

Rapida parentesi statistica: in Italia, il 70% dei Comuni ha meno di 5 mila abitanti e vi risiede poco più del 16% della popolazione complessiva. Lasciando stare la retorica su quanto sia bello «vivere in un posto dove ci si conosce tutti» (cosa che per me sarebbe un incubo), il gioco non vale la candela dal punto di vista del potere politico: i soldi a bilancio sono pochi e le quote nelle partecipate sono irrisorie, ma se il sindachino locale - espressione del "tuo" partito - combina una marachella sono cazzi amari in termini di reputazione a livello nazionale. La situazione nel 1993 non era troppo diversa, ma una fuga dei partiti dalle elezioni in "provincia" avrebbe immediatamente azzerato la credibilità della riforma. Si optò quindi per una transizione soft: da Nord a Sud, spuntarono migliaia di liste civiche, collegate a questo o a quel partito, che avrebbero dovuto - secondo le intenzioni dei promotori - perseguire un'azione politica più genuina, più trasparente e più attenta alle specifiche problematiche dei territori di riferimento. 

La farsa nei piccoli comuni durò pochissimo - giusto il tempo di concludere il primo mandato, dopodiché furono rimpiazzate da liste autonome e, in sostanza, apolitiche - eppure l'operazione di marketing funzionò talmente bene che qualcuno pensò di "importare" le liste civiche anche nei grandi centri urbani. Non che in precedenza non esistessero, ma erano iniziative sporadiche e velleitarie che speravano di attrarre il "voto di protesta" (spoiler: non ci riuscivano): la convinzione diffusa era che, una volta aggiustato qualche dettaglio qua e là, i partiti avrebbero continuato ad essere i protagonisti indiscussi delle sfide elettorali nei capoluoghi. Alcuni avrebbero cambiato nome, altri si sarebbero sciolti per poi ricomporsi su nuove "traiettorie ideologiche" ma, insomma, alla fine se la sarebbero tutti cavata. 

Non era però dello stesso avviso un banchiere di Torino, tal Enrico Salza (vi risparmio la googlata: è l'ex presidente del gruppo Intesa Sanpaolo). Ovviamente, fedele alla tradizione di tanti suoi colleghi multimiliardari, si definiva un «medio progressista vicino al centrosinistra» e, all'inizio del 1993, stava affrontando un enigma complicatissimo: gli operai sabaudi avevano reagito alla svolta della Bolognina e alla susseguente nascita del Partito Democratico della Sinistra con un sonoro ed irrispettoso pernacchione. Chissà come mai, dico io. Fatto sta che, da lì a pochi mesi, si sarebbe votato per le Comunali e i sondaggi pronosticavano una catastrofe: i più generosi attribuivano alla Quercia a malapena il 15% (solo tre anni prima, il Partito Comunista aveva preso il 28%); i più cattivelli mettevano in dubbio che potesse arrivare in doppia cifra. Ai sodali di Occhetto, tuttavia, questo aspetto interessava in misura limitata. Il vero problema era il candidato che veniva dato per favorito, il quale - rullo di tamburi - non era né democristiano, né leghista, né missino, bensì un ex sindaco sostenuto da Rifondazione Comunista. Avevano fatto 'sto casino di congressi, lacrime e addii dolorosi per finire umiliati, nella città della FIAT, dai vecchi - in tutti i sensi - compagni intransigenti? Tragedia!

Toccò dunque al Salza farsi venire un'idea che fosse ambiziosa ma non avventata: la scelta del candidato ricadde su un docente universitario, abbastanza noto in campo accademico ma privo di esperienza politica, che sarebbe stato appoggiato dai democratici, dai verdi e da una freschissima lista civica piena di figure della cosiddetta "società civile" (imprenditori, liberi professionisti e intellettuali, tra cui Elsa Fornero) e un paio di trombati "moderati" del vecchio establishment. Il primo turno certificò il vantaggio di Rifondazione e la crisi del PDS ma, proprio grazie al risultato della civica, Castellani - questo il nome del prof - riuscì ad entrare al ballottaggio e lì si impose definitivamente facendo leva sui volti rassicuranti della sua possibile giunta in contrapposizione a quella dei per nulla ironici nostalgici dell'Unione Sovietica (fun fact: venne confermato di nuovo nel 1997 battendo il centrodestra, questa volta con il supporto di Rifondazione e con l'endorsement degli Agnelli). 

L'esperimento piacque, e piacque a tutti. A Bologna, nel 1999, vi fu forse il caso più emblematico quando Forza Italia e Alleanza Nazionale puntarono sul presidente della Confcommercio locale, Guazzaloca detto il "Guazza", e sulla sua lista civica che, alla fine, prese più voti delle due liste di partito: vinse anche lui al ballottaggio e, seppur portato in trionfo da Berlusconi e Fini (che dicevano di aver espugnato la più difficile roccaforte "rossa" in Italia), non perse mai l'occasione di sottolineare la trasversalità delle sue proposte nonché una ragionevole diffidenza nei confronti degli alleati

Si noti che, a questo punto, non eravamo ancora al civichismo in quanto tale. Di Guazza ce n'era solo uno (purtroppo) - così come di Bologna (per fortuna) - perciò, per anni, il ricorso alle soluzioni "civiche" è stato considerato un jolly da usare con estrema oculatezza e non un approccio strutturale: se messi alle strette, i partiti preferivano ancora affidarsi a profili politici già relativamente famosi e puntare sul "voto di simpatia" (spoiler: non ci riuscivano). Il salto di qualità - sono sarcastico, eh - avviene dal 2009, in risposta alla comparsa dei grillini e delle loro "liste civiche a Cinque Stelle": non tanto per i risultati ottenuti (che all'inizio, ricordiamolo, erano pietosi) quanto piuttosto per le parole d'ordine che essi diffondevano - con grande successo - circa il rapporto tra i cittadini e le istituzioni, in primis le amministrazioni locali. Il problema dei politici "ladri" era stato infatti affiancato, a loro dire, dal ben più scandaloso problema dei politici "fannulloni", "poltronari", "arrivisti" e, perché no, "traditori": era chiaro a tutti che da un'accusa di corruzione ci si sarebbe comunque potuti difendere in un tribunale (ed eventualmente essere scagionati), ma come avrebbero dovuto comportarsi se le persone li avessero accusati del fantomatico reato di "incompetenza"

Per salvare capra e cavoli - o, almeno, le apparenze - nacque quella che potremmo definire una vera e propria "commedia civica" che, tolte impercettibili variazioni, è ciò con cui conviviamo ancora oggi. Fateci caso: quando manca poco meno di un anno alle Amministrative nelle grandi città, sulle pagine dei quotidiani locali appare l'intervista - non richiesta né necessaria - ad un carneade del posto che, discretamente realizzato dal punto di vista economico e lavorativo, si lancia ad elencare le problematiche su cui «la giunta uscente avrebbe dovuto fare di più». Lui nella vita ha «sempre dato priorità alla carriera e alla famiglia», ma adesso ha improvvisamente scoperto che c'è un «vuoto di rappresentanza da colmare» e, naturalmente, anche una «parte di società civile che non vuole più restare a guardare». Lui perciò ci prova e fa un audace «appello alla cittadinanza senza pregiudizi né preconcetti» per «superare l'immobilismo causato da certe logiche di palazzo»: nel giro di una settimana, in maniera assolutamente imprevedibile, è già in conferenza stampa a presentare la sua lista civica. Pazzesco. Con lui ci sono vari esponenti delle immancabili "categorie" che annunciano la creazione di ulteriori liste "tematiche" (quella dei giovani, quella dei commercianti, quella dei pensionati) e, pensate che coincidenza, anche i leader dell'opposizione in quel Comune che, dopo un'attenta riflessione, folgorati da cotanto coraggio, hanno deciso di appoggiarlo! O meglio: di fare «un passo indietro» per «rimarcare la forte vocazione civica dell'alleanza». 

La verità è che, nell'era dello storytelling politico, non esiste alcuna verità: più una vicenda viene spacciata come "spontanea" e più risulterà dettagliata la pianificazione a monte. Ma quali "discese in campo" 2.0? Quali candidature "indipendenti"? Quali "appelli civici"? Da Sala a Michetti - passando per Manfredi, Bernardo, Brugnaro e molti altri - l'ultima generazione di amministratori locali del centrodestra e del centrosinistra è una sfilata di personaggi trascinati nei Municipi con la promessa di un radioso futuro politico: se vincono, diventano le mascotte nazionali dei partiti che li hanno sostenuti; se perdono, si fanno un paio d'anni di purgatorio e poi vengono ricompensati con un posto blindato in un'altra competizione elettorale. Guardateli, santo cielo: sono talmente neutrali e insipidi che se si fossero candidati con lo schieramento opposto nessuno se ne sarebbe accorto (probabilmente neanche loro). L'unico reale requisito è l'aver concluso qualcosa - qualsiasi cosa - nella propria vita affinché se ne possano evidenziare le «capacità professionali» e la «voglia di rimboccarsi le maniche»: il resto - a partire dai programmi - diventa un mero contorno di cui ci si può dimenticare in fretta.  

Per certi versi, l'attuale perdita di significato delle Amministrative dovrebbe essere ritenuta molto più grave rispetto a quella che si intendeva sanare nel 1992: tra astensionismo, soglie di sbarramento e premi di maggioranza, abbiamo sindaci scelti da meno del 20-25% dei cittadini. Sindaci che, in ultima istanza, servono solo ai partiti per mettere le loro bandierine sulla cartina geografica. Malgrado ciò, in assenza di scandali imperdonabili, è quasi impossibile che qualcuno osi metterne in dubbio la legittimità: se il sindaco lavora male, lo si tollera in attesa delle prossime elezioni; se lavora bene, lo si celebra come una sorta di nume tutelare della città. «In fondo» - si dice - «è solo un civico, non c'entra nulla con la politica». 

Sia chiaro: non è colpa di De Luca se ci troviamo qui. Ma qui De Luca ha imparato a sguazzare benissimo dopo aver preso, checché ne dica lui, molti più schiaffi "politici" di quanti ne abbia realmente dati negli ultimi tre decenni. Fino al 2005 si sposta in orizzontale tra i vari orfani della Democrazia Cristiana, poi crede brevemente al "Movimento per le Autonomie" di Raffaele Lombardo (figura mitologica di inizio millennio, detto il "Bossi del Mezzogiorno") e a "Forza del Sud" di Gianfranco Micciché: in questi anni è sindaco di Fiumedinisi (meno di 2 mila abitanti) e deputato all'ARS, ma i suoi tentativi di imporsi come leader sulla scena regionale falliscono. Finisce sui giornali per le sue iniziative di protesta (in primis, gli spogliarelli) e si conferma un buon "mister preferenze" nel suo collegio: nulla di originale, è l'inflazionatissima ricetta «salti, casini e santini» usata da svariati personaggi politici nello Stivale. 

Solo dal 2011 si mette in proprio con la fondazione del partito - anch'esso autonomista e meridionalista - "Sicilia Vera" (sigla già attiva dal 2007 come semplice associazione "critica" in seno al MpA). Nel 2012, è vero, c'è il successo a Santa Teresa di Riva e la nascita del "metodo De Luca", ma c'è anche l'1.2% alle Regionali siciliane alla guida di una bizzarra alleanza (con Sgarbi, Forza Nuova, l'avvocato Taormina e pezzi del movimento dei Forconi) creata dopo essere stato scaricato malamente da Nello Musumeci, leader della coalizione di centrodestra. Passiamo al 2017 e Sicilia Vera è un partito che funziona in provincia (ai sindaci di Fiumedinisi e Santa Teresa di Riva si aggiunge quello di Pagliara) ma che arranca nei capoluoghi e che ha bisogno di accordarsi con l'UDC per essere presente alla Regionali (in appoggio a Musumeci, ma vabbè). 

Nel 2018, con le Amministrative di Messina, arriva finalmente la trasformazione "civichista". La città ha mezzo miliardo di debiti e il sindaco uscente è a sua volta un civico che, nel 2013, ha vinto con l'appoggio di Rifondazione Comunista, Italia dei Valori, Verdi e il comitato "No Ponte": il bilancio colabrodo non è certamente imputabile a lui ma, si sa, in campagna elettorale non si va troppo per il sottile. De Luca vi partecipa da outsider, elimina i riferimenti a Sicilia Vera e presenta la bellezza di sei liste civiche accomunate dalla dicitura "De Luca Sindaco". Tralasciando le proposte fantascientifiche - tra cui un casinò e una monorotaia sospesa - il suo programma è un tomo di 250 pagine che può essere riassunto in due obiettivi: tagliare tutto il tagliabile e rastrellare ogni singolo euro messo a disposizione da bandi, finanziamenti e fondi (siano essi regionali, statali o europei) per sostenere i progetti sul territorio.

Al primo turno il candidato del centrodestra è in vantaggio con il 28%, quello del centrosinistra si ferma al 18% e De Luca riesce quindi ad entrare al ballottaggio come secondo con il 20%. Le liste in corsa sono 29 ed è il trionfo del voto disgiunto: De Luca riceve 9 mila voti in più rispetto alle sigle che lo sostengono (che non superano lo sbarramento e non fanno eletti), il candidato del centrodestra ne perde 8 mila rispetto alla sua coalizione. Al ballottaggio l'affluenza crolla dal 65% al 39%: De Luca è senza apparentamenti (nonostante un'offerta avanzata al Movimento 5 Stelle) ma riesce comunque a vincere sul rivale e diventare sindaco del Comune e della Città Metropolitana

Nel 2020 scoppia la febbre del pangolino - o era del pipistrello? - e milioni di italiani al di là dello Stretto scoprono per la prima volta De Luca come il «sindaco cattivo che perseguita i suoi cittadini con i droni» (per alcuni lo è ancora adesso). Per la maggior parte dei messinesi - ovvero «i suoi cittadini» - De Luca diventa invece l'eroe civico che urla le loro preoccupazioni di fronte a Regione e Governo centrale: quando c'è la paura dei contagi, lui blocca il porto; quando c'è la voglia di tornare alla normalità, lui è in piazza contro le restrizioni. Questo è un passaggio fondamentale nell'evoluzione del civichismo in salsa deluchiana: pur consapevole di sembrare incoerente, De Luca sa che non è tenuto a rispondere delle sue azioni come amministratore locale a persone che abitano dall'altra parte dell'Italia. Non saranno loro a valutare il suo operato, quindi dicano pure ciò che vogliono. Intanto, adesso, sanno della sua esistenza e lui può dire ai messinesi: «Guardate, siamo sulla bocca di tutti»

Nelle prime settimane del 2022 De Luca presenta le dimissioni da sindaco di Messina per concentrarsi sulla candidatura alle Regionali dello stesso anno. Rispetto agli obiettivi programmatici, è innegabile che De Luca li abbia raggiunti in modo soddisfacente secondo il giudizio dei cittadini: oltre ai suoi approfonditi resoconti, la prova più lampante è - pochi mesi dopo - la vittoria al primo turno del suo "delfino". Le tempistiche sembrano studiate a tavolino: con le dimissioni a febbraio, le Comunali avrebbero avuto luogo a giugno così da risultare distanziate, ma non troppo, dalle Regionali (inizialmente previste per novembre e poi accorpate con le Politiche di settembre, a cui De Luca parteciperà in alcuni collegi). 

Altroché Masaniello improvvisato o voce non allineata contro il Sistema: in questi frangenti, con tre livelli di elezioni da seguire, emerge tutta l'astuzia politica del vecchio democristiano che sa spostare e rimodulare l'attenzione degli elettori dove ne ha più bisogno. Fa diventare «De Luca Sindaco» un brand: può essere il sindaco, ovviamente, di un Comune ma anche «di Sicilia» e, addirittura, «d'Italia»: in pratica, ci sta dicendo che il suo glorioso percorso a Messina è replicabile e/o "scalabile" all'infinito indipendentemente dalle condizioni di partenza. 

Questa però è una crassa baggianata facilmente smentibile. De Luca ha potuto agire, nel capoluogo dello Stretto, come un tecnico che non aveva niente da perdere: erano gli stessi elettori a chiedergli di lanciare una spending review massiva in una città economicamente e politicamente disastrata. Forte di questa investitura popolare, e sfruttando la peculiare composizione del Consiglio Comunale (dove, ripeto, le sue liste non avevano eletti), qualsiasi tentativo di ostruzionismo poteva essere demagogicamente propagandato all'esterno come atto di irresponsabilità e/o prova di contiguità con chi aveva portato Messina ad un passo dal default. Che fosse vero o falso non aveva importanza: lui era in ogni caso più convincente degli altri a spiegare le sue ragioni. Adesso, a patto che non siate di Messina, provate ad immaginare il sindaco della vostra città che fa una diretta gridando «Uffa, voglio tagliare ancora più cose ma i consiglieri non me lo permettono! Io me ne vado!». Surreale, no? Al massimo sono i consiglieri che accusano il sindaco di voler tagliare troppo (e di nascosto). Eppure questa era Messina con De Luca.

Un discorso analogo si applica ai bandi europei. De Luca ne ha fatto un marchio di fabbrica sin dalla sua prima sindacatura a Fiumedinisi, sviluppando competenze - progettuali, contabili e burocratiche - capaci di garantire, attraverso questi canali, un afflusso di denaro costante (e corposo) agli enti da lui governati. Sostiene di essere tra gli amministratori italiani più esperti in questo campo e io non faccio fatica a crederlo (anche perché, come ci fanno sapere i report ministeriali, la quantità di domande rigettate per errori di forma o altre quisquilie è abbastanza alta). Benché perfettamente legale, legittimo e trasparente, se De Luca da una parte taglia (vedi sopra) e dall'altra finanzia con i soldi dell'Unione Europea (vedi PNRR), sul lungo periodo - e su larga scala - diventa un gioco a "somma zero", se non direttamente a "somma negativa". È il solito discorso dei «soldi gratis dall'Europa» che si trasformano in bocconi avvelenati: anche quelli ufficialmente "a fondo perduto" vengono, in un modo o nell'altro, riassorbiti alla fonte nel corso degli anni. Magari l'impatto sulle casse del Comune di Messina sarà irrisorio ma, a livello di aggregato nazionale, l'obolo di San Parametro da Maastricht lo si dovrà comunque sganciare. 

Finché De Luca vi si affida per risolvere le situazioni di grave emergenza sociale di un singolo capoluogo, sarebbe stupido criticarlo: c'erano, li ha vinti, li ha usati e va bene così. I grattacapi iniziano nel momento in cui De Luca dice di voler "risalire" la piramide del potere: un conto è essere l'amministratore diligente sul territorio che intercetta questi fondi, un altro è diventare il decisore politico che deve andarli a negoziare. Il Sindaco d'Italia come pensa di comportarsi in uno scenario del genere? Qual è, più in generale, la direzione che vorrebbe dare alla Nazione? Sono domande ipotetiche, ma dalle risposte dipende tutta la credibilità della sua narrazione incendiaria contro lo status quo: lui, vecchio democristiano, non le fornisce mai. 

Per ora una cosa è certa: senza i soldi di Bruxelles, il "metodo De Luca" cesserebbe di esistere e diventerebbe il clone in miniatura di una "cura Monti" dove il rigore di bilancio è l'unico obiettivo realmente perseguibile. Lo si capisce palesemente guardando chi è la persona che candida come suo successore a Messina: un commercialista assunto nel 2019 come "advisor" per la redazione del piano di risanamento del Comune e, nel frattempo, diventato direttore generale del Comune. De Luca dice che sarà il «guardiano dei conti»; lui, Basile, dice che la strada rimarrà quella tracciata da Cateno. Più civico o più tecnico? Di sicuro poco politico e per nulla propositivo. De Luca lo fa appoggiare da 9 liste, 8 civiche più la salviniana "Prima l'Italia" che si sfila dalla coalizione di centrodestra. Il civichismo diventa autocefalo: non è più al servizio dei partiti ma vi tratta da pari; se necessario, li fa litigare e li usa pure a suo vantaggio. Basile vince al primo turno con il 45% superando proprio il centrodestra: a differenza del 2018, questa volta le civiche di De Luca superano lo sbarramento ma - fatto curioso - solo quelle che riportano esplicitamente il suo cognome di fianco a quello del candidato sindaco. 

Forse si poteva ambire ad un risultato più schiacciante, ma per De Luca va bene lo stesso: la prova generale può considerarsi superata e lui può iniziare la campagna per le Regionali sbandierando una vittoria che mette a tacere qualsiasi critica e perplessità sull'assenza di contenuti politici caratterizzanti nella sua proposta. È forse in questo senso che, muovendosi in anticipo rispetto agli avversari, presenta la sua ultima creatura - "Sud chiama Nord" - insieme all'europarlamentare Dino Giarrusso (che però lascia quasi subito): l'autonomismo di Sicilia Vera resta sullo sfondo, mentre il nuovo soggetto diventa rapidamente la punta di diamante del progetto civichista che prova a risalire la Penisola accarezzando il filone del federalismo e del neo-sturzismo. A luglio cade il Governo Draghi e De Luca può attuare delle comode economie di scala proponendo, per lo stesso election day, Sud chiama Nord sia alle Regionali che alle Politiche.

Alle Regionali schiera 9 liste (tutte civiche, ovviamente): il programma è introvabile, ma De Luca porta a casa 500 mila voti ed arriva secondo, con il 24%, dietro a Schifani del centrodestra. Sud chiama Nord ne prende 250 mila ed è l'unica lista della coalizione a superare lo sbarramento (altro fatto curioso: è il simbolo dove il nome di De Luca risulta il più grande e leggibile). Nella provincia di Messina, 1 elettore su 2 sceglie Cateno e ciò compensa i risultati mediocri nelle altre province dove Schifani fa il pienone. 

Alle Politiche, dopo aver valutato e poi scartato un accordo con Renzi (anche lui favorevole all'introduzione della figura del «Sindaco d'Italia»), raccoglie le firme per Camera e Senato per i collegi siciliani più altri collegi sparsi nel resto del Paese. Fuori dall'isola prende pochissimo, ma in Sicilia vince gli uninominali di Messina di Camera e Senato con Sud chiama Nord che prende praticamente gli stessi voti delle Regionali (207 mila alla Camera, 266 mila al Senato). Due eletti, esattamente come il numero di pagine del programma depositato al Ministero dell'Interno.

Comune, Regione, Parlamento. La tripletta di De Luca nel 2022 è post-ideologica, post-politica, post-storica, post-tutto. È il sindaco di Messina che chiede ai messinesi di identificarsi con lui perché lui ha dimostrato di essere come loro, nella buona e nella cattiva sorte, e allora è inutile perdersi in programmi e promesse: «Su quel simbolo c'è il mio nome, fatevelo bastare!». E loro accettano, e lo aiutano ad arrivare in posti - dove altrimenti non sarebbe mai arrivato - da cui lui può professarsi nuovo Garibaldi al rovescio enunciando la "rivoluzione dei conti in ordine" che in qualsiasi altra città sarebbe stata - giustamente - accolta con le barricate. Perché se De Luca è Messina, Messina non è l'Italia.

Ma non c'è tempo per chiedere, per obiettare, per capire, per approfondire: Cateno è già al prossimo tour, al prossimo comizio, alla prossima sfida, a gridare «Libertà!» con i parvenu di stagnola che pensano di fotterlo usandolo come taxi elettorale. Certo, credeteci pure. Proprio lui, il vecchio democristiano da 500 mila voti in Sicilia che ha bisogno di farne altrettanti nelle altre 19 regioni per diventare «Sindaco d'Europa»

Populismo civico? No, opportunismo cinico. Ma bravo se ci riesce, alla fine. 

 

 

PS: il libro me lo hanno spedito a gratis dal suo comitato elettorale insieme ad un chilo di roba tra volantini, adesivi e gadget. 

PPS: ma ci pensate se avesse fatto davvero la monorotaia? 

PPPS: l'8 e il 9 giugno 2024 vota e fai votare SILVIO BERLVSCONI DVCE (Tajani ha detto che è valido).

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