Sono anni che, governo dopo governo, veniamo martellati con la storia della digitalizzazione. Digitalizzare la pubblica amministrazione, digitalizzare i certificati, digitalizzare le raccomandate, digitalizzare gli sportelli e così via: hanno elevato il processo a panacea contro tutti i mali burocratici. E del resto ventilare delle promesse è decisamente semplice quando i termini rimangono così vaghi e generici. Fatalmente, questa impostazione tradisce una scarsa conoscenza della materia e, al contempo, la scommessa che neanche l’elettorato abbia un’idea chiara degli obiettivi proposti e dei mezzi impiegati: basta creare un sentiment positivo nell’opinione pubblica e il gioco è fatto. Pubblico e privato saltano a bordo di questo bel carrozzone, sperando di abbinare un bel risparmio a una retorica “al passo coi tempi”.
Prima di iniziare questa disamina, mi preme sottolineare come il sottoscritto non sia né un oltranzista detrattore né un fanatico sostenitore dell’informatizzazione. Trattandosi del mio ambito lavorativo mi sono fatto qualche idea, osservando quel che c’è oltre alla “facciata” per il semplice utente, dentro il “cofano” di questi strumenti. Iniziamo quindi proprio dagli strumenti.
Quello che potremmo, intuitivamente, definire come nocciolo del processo di digitalizzazione è la smaterializzazione delle informazioni contenute su carta in favore di una loro versione digitale e immateriale su macchina. Ecco, con grande sorpresa di parecchi propugnatori della digitalizzazione, tutto ciò è necessario ma tutt’altro che sufficiente. Per capire perché, vogliate accontentarvi di questa spiegazione estremamente superficiale: i sistemi automatici “capiscono” i dati solo se espressi in un modo a loro congeniale. Una scansione di un documento rappresenta, per la maggior parte dei sistemi, un dato incomprensibile che potrà essere riprodotto ma difficilmente (o non automaticamente) interpretato dalla macchina. Sembrerà un dettaglio ma se non stiamo attenti ci perdiamo quello che è il vero e proprio vantaggio del processo di digitalizzazione: l’elaborazione del dato. È vero che abbiamo dei calcolatori che in secondi possono setacciare interi archivi e trovare i proverbiali “aghi nel pagliaio”, ma per farlo devono avere a disposizione dei dati che siano nativamente digitali e non una trasposizione brutale di un dato reale. Tanto per capirsi: se devo stampare un modulo per compilarlo a mano e poi scansionarlo per inviarlo via email, sto generando dei dati (fra l’altro piuttosto pesanti) che potranno essere letti (e verranno letti) prevalentemente da esseri umani. Allo stesso modo, possiamo ridurre tutto un archivio a una scatola che sta su una scrivania, certo, ma così facendo non otteniamo un sistema in alcun modo migliore della controparte fisica. Insomma, non stiamo sfruttando la prerogativa principale delle macchine di fare istantaneamente e senza errori moli sterminate di lavori estremamente stupidi e ripetitivi.
Il processo di digitalizzazione non ha senso se si focalizza semplicemente sul rimpiazzo degli strumenti fisici. Non ha senso sostituire una macchina da scrivere con un editor di testo se poi non salvo i miei documenti e li riscrivo tutti da capo ogni volta. Purtroppo, per la classe dirigente nostrana ed europea, la digitalizzazione consiste nella sostituzione dei mezzi e non dei processi… E cosa succede se non c’è un mezzo digitale ad-hoc per effettuare questo rimpiazzo? Proviamo a capirlo con un esempio tristemente noto.
La comodità delle email è innegabile: possiamo inviare in pochi secondi intere biblioteche a persone all’altro capo del mondo. Uno strumento estremamente efficiente, non a caso uno dei primissimi a sfruttare internet dalla sua creazione. Tuttavia questo dispositivo di per sé non sembrava granché adatto a sostituire completamente qualsiasi strumento postale: la possibilità di un uso indebito o fraudolento degli account di posta elettronica mina pesantemente l’idea di impiegarli per procedure burocratiche o particolarmente formali. Ok mandare le foto delle vacanze ai propri amici, ma come faccio a usare l’email per documenti più delicati sotto un profilo legale? Come sostituisco le raccomandate? Da queste domande, basate su presupposti intrinsecamente errati in quanto miranti a sostituire un mezzo e non un processo, non poteva che nascere uno strumento problematico come la PEC. La posta elettronica certificata è la quintessenza dell’approccio sbagliato alla digitalizzazione: si è voluto creare uno strumento che sostituisse le raccomandate senza chiedersi se, magari, fosse possibile agire sul motivo che spinge a inviare le raccomandate stesse, rimuovendo alla radice il problema. Si è così creato ex-novo un sistema, creando problemi di standardizzazione (all’estero si son ben guardati dal fare una cosa del genere), creando un costo (i provider di PEC devono registrarsi presso l’Agenzia delle Entrate e si fanno pagare profumatamente per fornire le caselle di posta certificata), innescando alcuni problemi inediti come l’impossibilità di garantire l’identità del mittente. E naturalmente senza farsi mancare i problemi tecnici intrinseci del mezzo digitale in sé.
La digitalizzazione, da soluzione a un problema, si è così trasformata in un problema peggiore perché nuovo, che richiede nuove competenze e conoscenze a differenza di un sistema tradizionale e ben conosciuto. Un altro esempio di come un processo burocratico sia stato trasferito tale e quale sul mezzo digitale anziché ripensato è l’accesso ai portali di pubblica amministrazione. Comuni, enti, istituti, insomma tutto quello che un tempo aveva sportelli dedicati si è “fotocopiato” online. Senza cambiare l’approccio del mondo fisico ritroviamo una miriade di sportelli diversi (adesso chiamati portali) che spesso non si parlano fra loro, moduli da scansionare e inoltrare via posta, assistenti digitali di una stupidità ineguagliabile, code per l’accesso (incredibile che si faccia la coda per un sito internet, letteralmente comico), sistemi di autenticazione variegati e spesso a pagamento (oltre allo SPID, serve uno smartphone o un lettore RFID per la carta di identità o un lettore di carte per la tessera sanitaria). Tutte le inefficienze del vecchio mondo analogico inscatolate e riproposte comodamente alla scrivania di casa. E in più il fatto che i vari portali non parlino fra di loro comporta spesso un lavoro titanico per mantenere allineati tutti i dati, naturalmente a carico dell’utente.
A questo punto, qualche curioso potrebbe porsi una domanda: se il pubblico decide di imbarcarsi nel costoso processo di digitalizzazione in ottemperanza al PNRR, ossia in ossequio ai diktat di Bruxelles, che cosa spinge il mondo delle grandi aziende private, che secondo la vulgata dovrebbero ricercare ad ogni costo la competitività e l’efficienza di ogni centesimo speso, a lanciarsi in questa campagna di goffo ammodernamento?
La risposta è semplice e facilmente verificabile: tagliare i servizi senza che il cliente possa accorgersene. Provate a contattare il centro assistenza del vostro fornitore di rete fissa o mobile per avere un’informazione sul contratto o per disdirlo: prima vi risponde il nastro, poi vi risponde un “assistente digitale” (che è praticamente un sintetizzatore e riconoscitore vocale) per “assistervi” (cioè tentare in ogni modo di mandarvi sul sito internet dove un altro assistente via chat vi dirà di chiamare il centralino) e infine darvi la risposta sbagliata prima di buttare giù. Notare che qualora invece chiamiate per attivare una nuova linea o una nuova offerta verrete inoltrati tempestivamente a un essere umano. Analogamente, per disattivare una linea è spesso richiesta una raccomandata, un fax (perché non il telex a questo punto?) o una mail via PEC (che quasi nessun cliente possiede) per inviare l’immancabile modulo da stampare, compilare e riscansionare. Mentre per attivare un nuovo contratto o dei nuovi servizi a pagamento basta un banale “sì” detto con poca convinzione nel corso di una telefonata. Lo scopo è lapalissiano: dissuadervi dal compiere le operazioni che il fornitore considera non remunerative. In questo caso la digitalizzazione è platealmente nemica del cittadino, uno scudo dietro il quale nascondersi e una spada con il quale colpire. E al contempo permette, ça va sans dire, di tagliare posti di lavori: oltre il danno, la beffa altro danno.
Purtroppo (o per fortuna, fate voi) non possiamo arrestare il processo di digitalizzazione, figurarsi invertirlo. È un insieme di tecnologie che una volte scatenate sul mondo non possiamo “rimettere nel cappello” o ignorare: è connaturato al destino umano adeguarsi o venire annientati. Dunque occorre evitare di nascondere la testa sotto la sabbia sperando semplicemente che la bufera passi perché no, non accadrà. Uno Stato che si rispetti deve farsi carico, usando buon senso, di questo processo e al contempo regolarlo affinché non venga usato in maniera ostile nei confronti dei suoi cittadini. Non è una panacea per tutti i casi di mala-amministrazione, ma certamente può integrare e rinnovare molte dinamiche economiche. Bisogna domare il fenomeno e imparare a cavalcarlo prima che altri, stupidi o malevoli, decidano di usarlo a sproposito. O, peggio, contro di noi.