Il nuovo Governo Meloni si è appena insediato ed è nostro compito ragionare su ciò che ci aspetta nei prossimi mesi.
Chiariamo: le isterie suscitate nel centrosinistra dalla salita del leader di FdI a Palazzo Chigi sono ridicole e rappresentano il coma intellettuale in cui è caduta un'intera parte di paese. I pericoli paventati possono andar bene per un reel di Instagram, non certo per la realtà dei fatti. No, non ci sarà alcuna persecuzione contro omosessuali e minoranze varie. E no, non tornerà alcun Medioevo, nell'accezione negativa (e ignorante) che ne danno i globalisti.
Esistono invece motivi seri per cui tutti coloro che hanno a cuore le sorti della nazione dovrebbero storcere il naso davanti al nuovo esecutivo.
Quella che Draghi ha consegnato alla Meloni non è solo la campanella della Presidenza del Consiglio, bensì una vera e propria agenda di impegni che vanno dalle questioni economiche a quelle internazionali. Si tratta delle politiche neoliberiste e atlantiste tanto care al pupillo della Goldman Sachs. I vincoli di bilancio inscritti nel trattato di Maastricht restano intoccabili, la sacralità dei mercati e il taglio alla spesa pubblica rimangono fari indiscussi, la retorica del "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità" risulta immacolata assieme alla promessa di un'ulteriore "integrazione europea". Inoltre, il nuovo governo si impegna a sostenere l'invio di armamenti a Kiev, a garantire piena adesione alla Nato, ad accettare che il gas russo faccia parte del passato e a guardare in cagnesco la nascita di qualsiasi alternativa multipolare alla supremazia americana.
C'è chi pensa che questo gettarsi in braccio allo Zio Sam con rinnovato fanatismo sia un modo, per Giorgia Meloni, di raccattare qualche briciola oltreoceano. A fronte di una Germania poco incline a sacrificare la propria industria sull'altare della guerra alla Russia, un'Italia iperatlantica potrebbe lacerare la già fragile impalcatura europea. Ma questo significherebbe questionare l'ordoliberismo tedesco che sta alla base della dottrina economica di Bruxelles. Cosa che il centrodestra non appare intenzionato a fare. Mentre la Turchia sta dimostrando come si possa agire con più spregiudicatezza e astuzia ai tavoli internazionali senza prostrarsi davanti ai cancelli della Casa Bianca, un tale coraggio lungimirante, magari incentrato sul teatro mediterraneo, non sembra presente nei piani meloniani.
Certo, è facile prevedere un maggior focus, almeno a parole, sugli interessi nazionali. Pensiamo ad esempio alla "sovranità alimentare", essenziale per proteggere le produzioni locali dalla concorrenza al ribasso. Noi di Pro Italia abbiamo messo questo punto nel nostro manifesto proprio perché ne riconosciamo il valore strategico. Oppure al tema dell'immigrazione di massa, ovvero al disumano commercio capitalistico di manodopera a basso costo ai danni dei paesi del terzo mondo, al netto dei profughi di guerra, con ricadute sulla sicurezza delle periferie. Gli sbarchi sulle coste italiane vedranno presumibilmente un calo.
Ma si tratterà di palliativi, poiché non vi è alla base la reale messa in discussione dell'attuale paradigma neoliberista, e dunque il tutto rischia di risolversi in semplice sciovinismo. Come si possono difendere le proprie PMI quando l'impalcatura europea si fonda sul trionfo delle multinazionali sulle piccole aziende? Come si può sostenere l'economia reale rimanendo nelle maglie dei limiti di spesa e con la spada di Damocle di una BCE che può, come sta già facendo, smettere di acquistare BTP decretando l'innalzamento dello Spread? Come si può continuare a vedere in Bruxelles il proprio futuro quando la Commissione Europea lascia libero sfogo alla speculazione finanziaria e gli interessi dei singoli paesi non coincidono tra loro?
Non siamo tanto ingenui da pensare che la sovranità possa essere riscattata in poco tempo, certo, ma se non vi è almeno la volontà di intraprendere questa strada allora si eviti di parlare di cambiamento. E di patriottismo.