La sapevate quella dei caccia per l’aviazione di Kiev? Probabilmente sì, ma facciamo che la raccontiamo comunque, a beneficio di chi non ne abbia sentito parlare. Ah, per la cronaca, non è una barzelletta. È una storia vera che si è svolta proprio nei giorni scorsi.
A inizio marzo Josep Borrell, alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha risposto pubblicamente all’appello di Zelensky annunciando la possibilità che un Paese membro fornisse degli aerei militari all’Ucraina. Fortunatamente, l’alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza – com’è noto – non conta nulla. E così questa dichiarazione “vagamente” spericolata non ha avuto alcun seguito, finché lo stesso Borrell non è tornato sui suoi passi con un goffo dietrofront.
Mentre si consumava questo siparietto, che ha dato l’ennesima prova dell’inconsistenza di Bruxelles sul piano internazionale, lontano dalle telecamere, succedeva qualcosa di effettivamente rilevante. Gli americani, che in sede di Comando NATO non si erano detti contrari alla prospettiva che qualche alleato allungasse dei caccia a Kiev, avevano cominciato una trattativa con i polacchi. A quanto risulta, Varsavia in qualità di membro del patto atlantico sarebbe stata disponibile a cedere una trentina di MiG-29 all’aviazione ucraina, a patto di ricevere in cambio dei più moderni F-16 da oltreoceano.
Son pochi i segreti destinati a rimaner tali, specialmente in tempo di guerra. La notizia di quest’accordo, anche se in maniera piuttosto fumosa, è venuta a galla in quattro e quattr’otto e così il Cremlino ha avuto modo di chiarire la propria posizione in merito: qualora un areo di un qualsiasi Paese NATO fosse intervenuto nel conflitto ucraino, sarebbe stato interpretato come un atto di guerra alla Russia da parte dell’alleanza atlantica.
È così iniziato un simpatico tira e molla fra le cancellerie polacca e americana. Da quel poco che è trapelato sembra che, di fronte a una Varsavia comprensibilmente reticente ad avviare la terza guerra mondiale, Washington abbia più o meno risposto: “Ah, fate un po’ voi. Aerei vostri, affari vostri.”
Piccati per il ponziopilatismo yankee, i polacchi hanno reagito con una bella pensata. Hanno fatto decollare i MiG e, anziché condurli verso est in direzione dell’Ucraina, li hanno fatti volare verso ovest, verso la base americana di Ramstein. Una volta atterrati, hanno fatto sapere a tutti che la fornitura di aerei militari a un paese in guerra non poteva essere un’iniziativa esclusivamente polacca. E così, incredibile a dirsi, hanno mollato lì i jet, porgendoli agli americani insieme ai loro migliori auguri.
C’è del genio, bisogna riconoscerlo.
La parola fine a questo teatrino, che è drammatico e non comico solo perché c’è in ballo la possibilità di un conflitto mondiale, l’ha messa il 10 marzo il Segretario di Stato USA. Blinken ha chiarito, stavolta senza ambiguità, che gli Stati Uniti vogliono la fine di questa guerra, non la sua espansione, e che quindi non sarà fornito alcun velivolo a Kiev. Incrociamo le dita perché questo signore tenga fede alla parola data.
Dandone per scontata la valenza artisca, degna del Kubrick del Dottor Stranamore, c’è anche un motivo più concreto per cui vale la pena soffermarsi su questa vicenda grottesca. La storia dei caccia per Kiev è infatti l’ultima manifestazione plastica della confusione che regna sovrana nei vertici statunitensi con l’esplosione del conflitto in Ucraina (e che, in tutta evidenza, regnava già da qualche tempo). Purtroppo la lettura che in queste settimane hanno dato molti intellettuali, anche di notevolissimo livello, per cui gli USA sarebbero coloro che hanno voluto davvero questa guerra allo scopo di sventare la formazione di un blocco eurasiatico, per dividere definitivamente la Russia dall’Europa, è un tantino semplicistica.
Sia chiaro: è verissimo che c’è una parte del cosiddetto “deep state” americano che oggi si frega le mani per il rinnovato clima da guerra fredda. Peccato che questa parte sia, per l’appunto, soltanto una parte. Vi sono interi settori degli apparati americani, fra Pentagono, Dipartimento di Stato e soprattutto CIA, che leggono molto negativamente la piega che stanno prendendo le cose da questa parte dell’atlantico. In primis, perché l’esclusione, più o meno pronunciata, della Russia dal sistema economico occidentale sancisce l’inizio della fine della globalizzazione. Che, val la pena ricordarlo, è una costruzione americana, anzi è proprio la diretta conseguenza dell’egemonia a stelle e strisce su tutte le rotte del mondo. In secundis, perché allontanare Mosca dall’occidente significa spingerla fra le braccia di Pechino, vera avversaria di Washington, peraltro in una condizione di minorità.
C’è insomma una parte consistente dei vertici USA che ritiene che cementare l’innaturale alleanza fra l’orso russo e il panda cinese non sia esattamente la strategia più brillante per preservare la primazia dell’aquila americana. E quest’analisi non è una prerogativa delle sole élite. Anche nell’opinione pubblica statunitense c’è una fetta rilevante di cittadini che in questo momento prova una sorta di empatia per Putin, ritenendo che, tutto sommato, questi abbia le sue ragioni per fare ciò che fa dopo esser stato messo alle strette.
Dunque è ragionevole sostenere che gli americani non c’entrino nulla con la guerra cui stiamo assistendo? Evidentemente no. È chiaro che gli USA hanno un’enorme responsabilità, non fraintendiamoci. Ma c’è una bella differenza fra un delitto doloso e uno preterintenzionale. Fuori dalla metafora: con l’estensione – questa sì consapevolmente aggressiva – della NATO a Paesi baltici, Polonia e Romania ottenuta nel 2004, gli americani potevano dirsi soddisfatti per il contenimento portato ai danni della Federazione Russa. Purtroppo però a Washington non avevano fatto i conti con la russofobia, del resto piuttosto comprensibile, degli Stati cui si era affidata la responsabilità di gestire proprio quel contenimento.
Negli ultimi anni Lettonia, Lituania e Polonia sono stati i principali promotori di decine di grandi esercitazioni NATO a ridosso dei confini russi, nel Mar Nero e nella stessa Ucraina. Sono proprio questi Stati quelli che hanno sostenuto direttamente le formazioni “occidentaliste” del panorama politico ucraino, naturalmente in chiave anti-russa. E se a qualcuno non fosse stata ancora chiara l’antifona, persino dopo l’esplosione della guerra Varsavia ha continuato a caldeggiare a Bruxelles la proposta di ammissione di Kiev all’Unione europea, in opposizione frontale alle volontà del Cremlino.
Per chi dovesse nutrire ancora qualche dubbio, un altro indizio sul ruolo cruciale giocato dai Paesi di questa cintura nel provocare la reazione violenta di Mosca si può ritrovare nei recenti viaggi di Blinken. Dal 24 febbraio in poi, il Segretario di Stato americano non ha fatto tappe nelle capitali dell’Europa centro-orientale per ragioni turistiche, ma per sanare le fibrillazioni che l’invasione russa aveva innescato. Insomma Blinken, all’indomani della mossa di Putin, è andato immediatamente da quelle parti ad assicurarsi che nessuno si facesse prendere la mano e commettesse qualche avventatezza che avrebbe potuto allargare il conflitto oltre il punto di non ritorno.
Ora, arrivato a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi se valga davvero la pena indugiare più di tanto sul ruolo giocato da Riga, Vilnius e Varsavia in questi anni per rivalutare la capacità di pianificazione attribuita a Washington. In fin dei conti, cosa cambia se questa guerra è stata indotta con minuziosa crudeltà o se è stata il frutto di uno scivolone? Alla fin fine la reazione americana non avrebbe mai potuto esser diversa da quella che stiamo vedendo. Quindi, aldilà della curiosità scientifica, cosa cambia?
Beh, cambia tutto.
Se effettivamente l’invasione russa in Ucraina è andata oltre il disegno degli apparati americani, se lo spiazzamento fra i vertici delle istituzioni di Washington è reale, come la vicenda dei caccia o le incertezze sullo SWIFT lasciano trapelare, allora siamo di fronte a una chiave di volta della Storia. L’impero americano ha commesso molti errori tattici nel corso della sua breve e intensa esistenza, ma fino a oggi non ha mai sbagliato nulla che contasse davvero per la propria “grand strategy”. Questa sarebbe la prima volta. Anzi, in tutta evidenza, è la prima volta. L’egemonia a stelle e strisce entra nella fase discendente della propria parabola.
Oh, capiamoci: nessuno qui sta annunciando la fine dell’impero americano. Anzi, a guardar bene, si vuol dire esattamente l’opposto, la presa americana sul mondo è destinata a rimanere piuttosto salda ancora per parecchio tempo. Ma l’ordine mondiale che conoscevamo si sta esaurendo, mentre quello che si va delineando è gravido di elementi inediti, molti dei quali del tutto inimmaginabili anche un solo mese fa. Primo fra tutti, il riarmo della Germania. Che, se la Storia insegna qualcosa, è destinato a diventare il fattore capace di scardinare realmente i precari equilibri del Vecchio Continente.
“Grande è il caos sotto il cielo. La situazione è eccellente.”
- Mao