L’insegnamento del latino e del greco antico è comune al Liceo Classico in Italia e ad analoghi corsi di studî superiori in altre Paesi di cultura europea nel XX e già nel XIX secolo, a partire dal Regno di Prussia dopo le Riforme di Wilhelm von Humboldt negli anni delle Guerre Napoleoniche. Già ben prima di allora, tuttavia, il greco antico era studiato accanto al latino in Europa Occidentale e Centrale (dal Mediterraneo alla Scandinavia), notoriamente fin dall’Umanesimo (XV secolo).
Prima dell’Umanesimo, la lingua di cultura dell’Europa Cattolica era eminentemente il solo latino; per ritrovare lo studio anche del greco bisogna risalire fino al periodo imperiale romano (al più tardi entro la definitiva costituzione dei Regni Romano-Germanici dei Franchi, dei Longobardi &c., anche se neppure in séguito è mai cessata la competenza di singoli eruditi in greco).
Probabilmente già in età repubblicana e di sicuro durante l’Impero, la lingua latina si differenziava in registri anche molto diversi fra loro. Nell’Impero Romano, plurilingue e multietnico, l’insegnamento della varietà alta urbana classica nelle Scuole di Grammatica e Retorica apparteneva al complesso di tecniche necessarie per prendere parte alla vita politica e alla direzione della società; sia dove non c’è stata interruzione rispetto all’Impero (Venezia, Stato Pontificio &c.) sia dove si è avuto il passaggio ai Regni Romano-Germanici (sempre nella continuità dell’organizzazione civile ed ecclesiastica), la competenza in latino e il suo insegnamento hanno continuato a rappresentare un requisito indispensabile per l’accesso ai livelli dirigenziali e decisionali della società.
Fino al XV secolo, con particolare intensità nei secoli XIII e XIV, la prospettiva della Riunificazione Imperiale è rimasta all’ordine del giorno dell’agenda politica e di conseguenza il recupero e l’estensione dello studio del greco (con particolare riguardo al suo stadio classico) rientrava in un progetto certo molto ambizioso, ma ritenuto perseguibile, di annessione del residuo Impero Bizantino a una Monarchia dell’Europa Cattolica – di fatto il Sacro Romano Impero o il Regno di Francia, attraverso l’Ungheria o uno dei Regni di Sicilia.
Contemporaneamente, come è noto, l’uso del volgare si estendeva a livello scritto, più accanto e oltre al latino che in sua vece, ma il latino ha conservato tutto il proprio ruolo tradizionale nel Sacro Romano Impero, nello Stato della Chiesa e fino al 1848 nel Regno Apostolico d’Ungheria entro la Monarchia Asburgica. Nel frattempo, già dalla prima metà del XVIII secolo il progetto di restaurare un Impero Bizantino in forme classiche torna in evidenza nell’agenda geopolitica delle principali Potenze dell’epoca (Francia, Austria, Russia) e poco dopo si fonde col gusto neoclassico, anche in Gran Bretagna e Prussia.
È in queste condizioni che si fissa nelle forme che conosciamo il curriculum di Studî Classici tuttora esistente. Con la valorizzazione romantica della Tradizione e delle varietà popolari, nel XIX secolo l’educazione linguistica prodotta dalla Storia prevede l’insegnamento del latino (ininterrottamente dalle Scuole di Grammatica e Retorica dell’Antichità Romana), del greco (sublimazione neoclassica del progetto bassomedioevale di Ūniō utrīusque Imperiī come Restaurazione dell’unità geopolitica del Mediterrraneo in epoca greco-romana), del francese (come lingua egemone nella comunicazione internazionale) e dell’idioma ‘nazionale’ (inglese, tedesco, toscano, magiaro, polacco &c.).
Se il ruolo del francese – a scapito del castigliano e del toscano – riflette l’egemonia della Francia (borbonica e napoleonica) in Europa, dopo il Colonialismo e le due Guerre Mondiali è innegabilmente l’inglese ad aver assunto il ruolo di principale lingua di comunicazione internazionale. L’accresciuta complessità degli Stati ‘Nazionali’ ha, d’altra parte, reso da un lato più concreti, dall’altro ha fatto esorbitare dall’àmbito puramente scolastico l’apprendimento e l’educazione nella lingua dello Stato.
Come in ogni sistema strutturato, l’alterazione del valore di un elemento ha ripercussioni sui rapporti con e fra tutti gli altri. Nella prima metà del XX secolo le quattro lingue dell’educazione classica tendono ormai a essere percepite in modo diverso da Stato a Stato e, soprattutto dopo la fine degli Imperi Centrali (che rappresentavano l’ultima continuazione della prospettiva romanogermanica e più in generale europea del Sacro Romano Impero), il senso dello studio si rimodella in forme ‘nazionali’: specificamente, in Italia l’apprendimento del francese rimane limitato al Ginnasio, mentre il curriculum dell’élite nazionale si incentra sulla successione italiano-latino-greco, dove le lingue classiche rivestono il ruolo di depositarie dello Spirito della Nazione alla sua massima potenza (l’Impero Romano; naturalmente, ai più alti livelli non sfugge il ruolo storico e sociolinguistico degli altre tre acroletti imperiali, aramaico copto e feniciopunico, per cui il già tradizionale studio dell’ebraico a fini di esegesi biblica per l’intelligencija cattolica si espande nelle grandi Scuole italiane di Orientalistica).
A distanza di parecchi decenni, è inevitabile chiedersi se il quadro culturale è ulteriormente cambiato. Di certo, come visto, il ruolo di prima lingua internazionale è passato, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale (per esplodere dopo la fine della Guerra Fredda), all’inglese. È mutata anche la percezione del rapporto fra lingua dello Stato e lingue classiche? È continuata un’azione simile a quella del Romanticismo, per la quale il senso di identità e di appartenenza si riflette nelle competenze linguistiche?
Ciò che nel Romanticismo è stata l’idea di Nazione è rappresentato, nel XX secolo, dalla Geopolitica. Le stesse Guerre Mondiali sono state l’applicazione concreta delle teorie geopolitiche planetarie elaborate all’inizio del XX secolo, incentrate sul concetto di Eurasia e della centralità del suo Heartland o del suo Rimland per il controllo dell’Isola Mondiale. Anche il tema, tuttora controverso, dell’unificazione europea è soltanto un capitolo della – realmente strategica – questione eurasiatica, intorno a cui ruota pressoché tutta la politica internazionale.
Dalla discussione geopolitica sull’Eurasia proviene la risposta all’interrogativo sul ruolo dello studio delle lingue classiche: la nozione di Indoeuropa. È merito della Glottologia di aver dato la dimostrazione che il celtico, il germanico, il baltico, lo slavo, l’illirico, il latino, il greco, il frigio, l’anatolico, l’armeno, l’indoiranico e il tocario continuano una medesima comunione linguistica preistorica, l’indoeuropeo. I Greci, i Latini, i Germani, i Celti, gli Illiri &c. erano le Nazioni dell’Antichità e l’indoeuropeo ricostruito è il principale mezzo con cui possiamo attingere la loro comune origine nella Preistoria; il risultato dell’incontro fra il culto della Classicità proprio dell’Umanesimo, del Rinascimento e del Settecento (nonché Primo Ottocento) e i Risorgimenti Nazionali (germanico, slavo, baltico, celtico &c.) del Romanticismo è l’unità indoeuropea, che a sua volta rappresenta la massima istanza identitaria distintiva (ossia non coestesa con l’intero Supercontinente) in tutta l’Eurasia. Dal Risorgimento alla Riforma Gentile, il greco e il latino hanno svolto il ruolo di emblema della Nazione nella sua fase originaria e massima, l’Antichità romana imperiale; nella Geopolitica contemporanea, l’indoeuropeo è la chiave per ricostruire la più grande unità interna all’Eurasia.
Ogni lingua si apprende o si acquisisce dai testi (scritti e orali); l’indoeuropeo è ricostruito, ma i suoi testi sono direttamente e concretamente all’origine delle tradizioni letterarie storiche, in particolare classiche, dall’India all’Irlanda; dunque l’indoeuropeo si apprende dai testi classici, a cominciare da quelli greci e latini: non in traduzione, ma di necessità nella lingua di partenza (perché il piano del contenuto non è sufficiente alla ricostruzione culturale preistorica; è indispensabile anche e soprattutto il piano dell’espressione, altrimenti la ricostruzione rimane vuota, in assenza di altre fonti storiche).
Oggi quindi non approfondire o addirittura non continuare la tradizione di studio dei testi classici significherebbe mettersi fuori dal Mondo, uscire dalla Storia, gettar via le proprie risorse, trascurare la via più semplice e naturale per formare una comunità politica in cui, al posto dell’odio reciproco, si possa nutrire per i proprî simili il sentimento di vicinanza che deriva dalla conoscenza della comune origine.