Tra le grandi menzogne che ci vengono propinate dagli aedi del pensiero unico ve n’è una particolarmente odiosa: per dialogare col mondo si deve annullare, disconoscere e persino demonizzare la propria identità.
Basterebbe applicare un po’ di sano senso critico per accorgersi di quanto sia sbagliato questo pensiero, tuttavia viviamo l’epoca della follia istituzionalizzata e dunque talvolta sottolineare l’ovvio è necessario. Sull’entrata del Tempio di Apollo a Delfi, in Grecia, era iscritta una massima che ancora oggi splende in tutta la sua saggezza: gnōthi seautón, ovvero “conosci te stesso.” I padri della filosofia, non a caso, erano ben consci dell’importanza della coscienza di sé, essenziale per instaurare un rapporto vero sia con la propria persona che con gli altri.
Invece il megafono della narrazione dominante, declinata in mille modi diversi attraverso ogni ganglio della produzione culturale, ripete a tutti noi l’esatto opposto. Ai giovani, soprattutto, viene urlato nelle orecchie l’ordine perentorio di disfarsi delle proprie radici, della propria identità e di ogni legame col passato e con la propria terra di origine. Il motivo? Si tratterebbe, secondo questa folle interpretazione, di fardelli inutili, di sovrastrutture opprimenti, addirittura di peccati originali di fronte ai quali si deve fare ammenda.
Un simile tarlo mentale, che il sottoscritto non esita a definire “olocausto neuronale”, sta imputridendo l’Occidente. A farne le spese sono le ultime generazioni, cresciute nell’humus dell’odio verso di sé. Sii tutto e niente, e sarai felice, questo è il messaggio di fondo ripetuto in maniera martellante dalla più potente macchina propagandistica della Storia.
Inutile dire come i risultati di questo indottrinamento siano disastrosi, sotto ogni aspetto. Abbiamo più volte analizzato la triste parabola dei borghi italiani, condannati allo spopolamento, oppure la trasformazione delle nostre splendide città in immobili musei a cielo aperto (cadaveri da esposizione, mi verrebbe da dire), privi della vitalità autoctona e spogliati di ogni peculiarità culturale. A ben vedere però il fenomeno ha ripercussioni ancora più ampie. Le comunità territoriali, una volta ben radicate e ricche di una conoscenza tramandata tramite il perdurare della tradizione, finiscono per sfilacciarsi e atomizzarsi. Divenendo dunque facile preda del potere, che tutto vuole tranne che trovarsi dinanzi una collettività coesa e orgogliosa.
Prendiamo ad esempio due piccoli abitati. Immaginiamo che le due realtà partano da condizioni identiche: stesso numero di abitanti, stesse caratteristiche naturali, stesse risorse e persino stesso percorso storico. L’unica differenza sta nella mentalità dei cittadini. Nel primo caso abbiamo persone che danno per scontato che il loro futuro risieda lontano dalla cittadina di nascita, considerata priva di qualsivoglia avvenire e, in fin dei conti, del tutto irrilevante. Nel secondo siamo di fronte a una cittadinanza innamorata del proprio luogo, conscia del passato che ne innerva ogni singola viuzza e convinta che il trasferimento altrove sia nient’altro che un’opzione. Vi chiedo: secondo voi questi due borghi, dal punto di vista materiale praticamente identici, andranno incontro allo stesso destino? La risposta è semplice: no. Il diverso approccio dei residenti porterà da una parte a un declino rapido e dall’altra una continua ricerca di nuove idee per tenere in vita l’abitato. La differenza sta nella coscienza di sé, in quel gnōthi seautón che scaccia via fatalismo e rassegnazione perché rivela le mille strade ancora percorribili.
Non solo. Conoscere sé stessi, sia come individui sia come comunità (nazionale, culturale, popolare, linguistica, territoriale ecc...), è la conditio sine qua non per un proficuo ed equilibrato incontro con l’altro. Quando non sussiste questa condizione, una delle due parti ha sempre la meglio sull’altra, schiacciandola o semplicemente camminando sulla sua voluta insipienza. A volte il processo è violento, altre invece è graduale, quasi dolce, ma nondimeno letale per chi, stupidamente, ha scelto di disconoscersi e flagellarsi. Pensate a quante relazioni tossiche potrebbero essere evitate se entrambe le persone coinvolte avessero reale contezza di sé. Serve forse uno psicologo per intuirlo?
Ci si può benissimo sentire parte di qualcosa di più grande, dal globo fino all’intero universo, senza tuttavia dimenticare la propria identità di partenza, quel genius loci che parla di noi. Le due cose non vanno in contrasto, anzi, si rinforzano a vicenda. Invece la vulgata globalista, acerrima nemica di ogni afflato identitario che non sia legato alla sfera sessuale o quella consumistica, dichiara con perentoria sicumera la necessità di sradicarsi per abbracciare il tutto. E così anche la Storia viene distorta affinché la si possa leggere solo come una lunga sequela di crimini e atrocità commesse dai propri antenati, una semplice “lista delle vergogne” a cui dar fuoco per fare tabula rasa e ricominciare da zero. Viene buttato il bambino con l’acqua sporca. Di proposito.
La cosa inquietante è che questa visione è spinta anche e soprattutto in ambito scolastico e universitario. I luoghi del sapere diventano fabbriche di soldatini spinti da un odio dogmatico verso il passato che li circonda e che tenta, inutilmente, di parlargli. Tutto va abbattuto, sfregiato, dissacrato. Nulla deve avere più un senso e un valore.
Un’autodistruzione nichilista spacciata per apertura verso “il diverso”. Ma che succede quando quest’ultimo, bontà sua, non è animato dallo stesso spirito suicida? Cosa succede quando la naturale commistione tra più culture, che ha donato all’Italia il suo patrimonio artistico unico al mondo, viene sostituita dall’incontro squilibrato tra chi vuole dissolversi e chi no? Lascio a voi la conclusione.
In definitiva, è necessario costruire una contro-narrazione che smonti pezzo dopo pezzo l’isteria in cui siamo immersi fino al collo. Non c’è nulla di sano, di razionale o di giusto nel prendere a colpi d’ascia le proprie radici pensando che questo possa farci librare in aria. Finiremo solo per appassire e morire.
Va invece preservato il nostro passato proiettandone la forza (e gli insegnamenti) nel futuro. C’è un potenziale immenso in ogni luogo, in ogni lingua, in ogni costume. E non parlo solo del tornaconto economico, che pure esiste, bensì di un benessere collettivo che deriva dal ristabilire un legame con la propria Storia, ritornando a progredire in maniera armoniosa. Ne gioverebbero anche le arti, dall’architettura alla moda, oggi inghiottite dal vortice anti-identitario che tutto appiattisce.
Potremmo dire, senza paura di esagerare, che il vero progresso lo si possa conseguire solo tenendo accesa la fiamma dell’identità. Una fiamma che va usata non per bruciare il prossimo ma per illuminare la strada. L’alternativa è procedere al buio e finire, inevitabilmente, per perdersi.