La crisi energetica che sta investendo il nostro continente ha una portata talmente catastrofica che questa settimana è addirittura riuscita a diventare il tema centrale della campagna elettorale nostrana. Certo, non è stato semplice soffiare il primato all'urgentissimo dibattito attorno alla fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia, ma grazie alla complicità delle prime aziende che hanno chiuso i battenti è stato possibile mettere da parte, almeno per qualche giorno, l'annosa questione de "l'emergenza fascista" prodotta da "l'avanzata delle destre" e parlare di qualcosa di concreto.
Purtroppo però, di fronte a una situazione drammatica, il livello della discussione politica che è scaturita si è rivelato ben presto piuttosto farsesco. Nel centro-destra fin da subito si è aperta la tenzone tra favorevoli e contrari a uno scostamento di bilancio per finanziare una manovra che provi a tamponare i costi delle bollette. La Meloni, più incline ad accreditarsi come forza "responsabile" che a preoccuparsi di famiglie e imprese, ha presto chiarito la sua contrarietà all'extra deficit: meglio veder saltare per aria le aziende che mettere a repentaglio gli equilibri di bilancio tanto cari a Bruxelles. Sull'altro fronte, mentre il 5Stelle propone di alzare la tassa sui profitti degli operatori dell'energia, Letta favoleggia su due chimere da ottenere in sede europea: il "price-cap" (letteralmente impossibile da raggiungere) e il disaccoppiamento fra prezzo dell'energia elettrica e del gas (misura che, per dirla senza troppi tecnicismi, sarà efficace quanto sparare a una corazzata con una pistola ad acqua).
Nessuno, ma proprio nessuno, dei grandi partiti coinvolti nella campagna elettorale ha avuto il coraggio di menzionare la prima cosa da fare per provare a fronteggiare questa congiuntura straordinaria: nazionalizzare i colossi dell'energia, a partire da Eni ed Enel.
Sia ben chiaro: di per sé questa misura non può bastare per venire a capo del problema. Per uscire completamente da questo pantano servirebbe sfilarsi dal giogo del "libero" mercato europeo degli idrocarburi, ripensando autonomamente una nostra politica energetica e industriale indipendente dalle deliranti imposizioni della cosiddetta "transizione ecologica". Occorrerebbe sfilarsi dal cappio NATO delle sanzioni, riaprire i rapporti diplomatici con la Russia e stipulare nuovi contratti di fornitura, stavolta svincolati dall'indicizzazione al TTF, il mercato del gas di Amsterdam. Ci sarebbe insomma moltissimo da fare, nessuno sostiene che si tratti di una passeggiata. Ma certamente il primo passo non può non essere quello di riprendere il pieno controllo delle proprie aziende di produzione e distribuzione dell'energia, oggi consegnate a una gestione privatistica del tutto disfunzionale all'interesse pubblico.
Per capire di cosa stiamo parlando: la sola Eni nel primo semestre del 2022 ha totalizzato 7,4 miliardi di utili netti, a fronte degli 1,1 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno. Si tratta di un incremento di più del 600%, realizzato grazie alla volata dei prezzi degli idrocarburi e a scapito, naturalmente, di tutti i cittadini italiani.
Tutto questo semplicemente non è più accettabile. Oggi più che mai occorre riportare sotto il completo controllo pubblico questi giganti industriali e ritrovare finalmente lo spirito di colui che dell’Eni fu il fondatore. Quell’Enrico Mattei che concepì fin da principio la propria creatura come un potente strumento al servizio dei suoi concittadini e non certo come una multinazionale orientata al mero profitto.
È una fortuna che oggi Mattei non possa assistere a questa triste storia. Se vedesse con i suoi occhi la parabola della sua Eni, lui che in nome dell’interesse nazionale diede tutto, non potrebbe far altro che una cosa: vergognarsene.