Anche quest’anno, in occasione della giornata dell’otto marzo, abbiamo ascoltato un profluvio di proclami sulla necessità di perseguire nel nostro Paese una parità effettiva fra uomini e donne nel campo del lavoro. E anche quest’anno, al netto dei megafoni e degli asterischi, la retorica espressa delle più alte istituzioni dello Stato italiano è stata esattamente la stessa proposta nei cortei e nelle piazze dei gruppi antagonisti di “lotta trans-femminista” (sic!).
A sentire tanto Mattarella quanto l* manifestant* di “Non una di meno”, la sostanziale disparità fra i sessi in materia di opportunità e diritti del lavoro sarebbe dovuta a una concezione retrograda e patriarcale della società. Insomma, i maschietti, poiché prepotenti, sarebbero ben arroccati nelle posizioni di potere e, poiché avari, si rifiuterebbero di condividere i propri privilegi con le femminucce.
Ora, questa profondissima analisi antropologica ha sicuramente il suo fascino ma forse (forse!) non è così esaustiva. Se non altro perché non risulta che l’ormai tristemente celebre “gender pay gap” sia più basso in Paesi con un numero più consistente di donne al comando. Anzi, al contrario, a osservare bene i dati europei emerge ad esempio che in Italia, nazione che vanta soltanto il 3% di donne in posizioni apicali nei contesti aziendali, la differenza di retribuzione oraria media fra dipendenti di sesso maschile e dipendenti di sesso femminile si attesta al di sotto del 5%. Tanto per avere un termine di paragone, il gender pay gap medio in UE – udite, udite – si attesta attorno al 13%, nonostante ogni cento CEO ben sette siano donne (percentuale più che doppia rispetto all’Italia). E si noti che questo valor medio non lievita tanto per il contributo dei Paesi di Visegrad quanto per l’apporto delle progreditissime Danimarca (gender pay gap al 13%), Olanda (14%), Francia (15%), Finlandia (17%) e persino Germania (con un clamoroso 18%).
A fronte di questi dati, possiamo trarre due conclusioni: o nei Paesi con un più alto tasso di capi donna il gentil sesso non si rivela poi così gentile verso se stesso o magari questo non è un problema di solidarietà femminile. Magari non si tratta neppure di un problema strettamente di genere, bensì di una questione strutturale, intimamente legata alle dinamiche di mercato a cui questi Paesi così emancipati sono integralmente consacrati.
Ma che c’entra il mercato? Beh, c’entra, c’entra eccome.
Con buona pace degl* amic* arcobalenat*, esistono differenze biologiche fra uomini e donne. Per esempio, gli uomini non vanno in gravidanza né partoriscono, le donne sì. In un contesto di puro mercato, in cui il lavoro è ridotto a una merce, è perfettamente normale che le aziende prezzino questa differenza, facendo scontare alle dipendenti di sesso femminile il rischio di un’improduttiva maternità direttamente sullo stipendio.
Senza dubbio crudele, ma... Ehi, è il mercato! Funziona così.
E badate bene che la valutazione del rischio maternità è soltanto uno dei tanti esempi di come le sedicenti forze razionali del mercato lavorino per marcare il gender pay gap. Basta soffermarsi a riflettere qualche minuto per poterne menzionare molti altri.
Il problema è tutto qua. In assenza di uno Stato forte, capace di intervenire nell’economia e di regolamentarla introducendo garanzie e tutele per chi lavora, ogni rivendicazione di parità di trattamento fra i sessi è una pura velleità. Finché ci continueremo a sacrificare sull’altare della concorrenza, finché santificheremo l’attuale impianto neoliberale, finché rimarremo nel perimetro dell’Unione europea, che cristallizza le regole di questo regime di puro mercato e lega le mani all’unico attore che avrebbe la facoltà di arginarlo, ossia lo Stato, non potrà mai esserci uguaglianza sul lavoro fra uomini e donne.
Mettiamocelo in testa una buona volta. Tutte e tutti.
Ogni maledetto otto marzo
Rivendicare l'uguaglianza sul lavoro fra uomini e donne senza questionare il modello neoliberale è sterile
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Mercoledì 8 Marzo 2023