Ci siamo quasi. Stando alle dichiarazioni della Lagarde, marzo 2022 sarà il mese che sancirà la fine del PEPP, il programma di acquisto di titoli pubblici e privati lanciato dalla BCE per fronteggiare la crisi economica causata dall’epidemia. Per qualche altro mese, fino alla fine dell’estate, il programma ordinario di quantitative easing dovrebbe espandersi per garantire il riacquisto di tutti i titoli in scadenza, dopodiché i rubinetti si chiuderanno e verrà ripristinato a tempo indeterminato il ritmo di venti miliardi di euro di acquisti mensili. Che, considerata la mole delle economie dell’Unione Europea, sono bruscolini.
Naturalmente è bastata l’incombenza del “tapering”, e in particolare la prospettiva della contrazione dei volumi d’acquisto sui titoli pubblici, a provocare la canonica cavalcata dello spread fra BTP e Bund. Un effetto collaterale davvero spiacevole ma necessario – a sentir le ragioni di Francoforte – per fronteggiare l’ondata d’inflazione che stiamo sperimentando. “Purtroppo, signora mia, ce stanno li poteri economici sovranazionali che so’ tanto brutti e tanto cattivi, e noi nun ce potemo fa’ granché” ha spiegato più o meno testualmente lo stesso Mattarella, fresco di rielezione, nel discorso tenuto a Montecitorio.
Purtroppo però questa versione dei fatti, corroborata da fior fior di esperti dalle colonne dei più autorevoli quotidiani del bel paese, ha qualche problemino a reggere la prova della realtà. Vediamo un po’ come mai.
Innanzitutto, il fatto che sia stato un annuncio della Presidente della BCE a innescare il rialzo dello spread dimostra per l’ennesima volta come sia l’operato della banca centrale e non la “credibilità” di chi sta al Governo a far ballare i rendimenti dei titoli di stato. Dunque, a scanso di equivoci, la scelta di consentire un aumento dello spread è stata, per l’appunto, una scelta politica intrapresa dalla BCE. I cui costi, ça va sans dire, gravano e graveranno sul bilancio pubblico del nostro Paese.
In secondo luogo, pensare di poter porre rimedio all’inflazione che stiamo registrando nel vecchio continente privando gli stati del sostegno della BCE è semplicemente assurdo. L’aumento dei prezzi in corso infatti non è di matrice endogena, non è in alcun modo ascrivibile a fattori interni alle economie dell’eurozona, men che meno a un presunto eccesso di liquidità dovuto alla manica troppo larga della BCE. Quello che stiamo vivendo è il più classico esempio d’inflazione trainata dai rincari sulle materie prime energetiche, non troppo diverso da quanto successo con gli shock petroliferi del ’73 e del ‘79. Lo dimostrano i fatti: se fossero davvero state le politiche espansive della BCE a provocare questo generalizzato aumento dei prezzi, avremmo dovuto registrare inflazione spalmata negli anni a partire dal 2015, l’anno d’inizio del quantitative easing. Invece fatalmente così non è andata e i prezzi sono lievitati proprio negli ultimi nove mesi, con la ripresa delle attività produttive a seguito del blocco imposto durante il primo anno di pandemia.
Non si capisce quindi in che modo ridurre i margini di spesa degli Stati, o meglio di alcuni Stati fra cui l’Italia, possa aiutare a frenare l’inflazione prodotta da una strozzatura sull’offerta di energia. È piuttosto chiaro anzi che, per gestire davvero questo tipo di crisi, occorrerebbe estendere, e non certo contrarre, i deficit pubblici dei Paesi coinvolti. Non è un concetto così esoterico: soltando amplificando le capacità di pianificazione economica degli Stati è possibile evitare di trovarsi in balia di un mercato dell’energia reso sempre più instabile non soltanto dalle tensioni geopolitiche nell’Europa dell’est ma anche, e soprattutto, dal proliferare di contratti di fornitura a breve o brevissimo termine.
Dunque, riassumendo, a Francoforte per affrontare una malattia (l’inflazione) si propone una cura (il tapering) che non avrà alcuna efficacia nel risolvere il problema ma che in compenso ci sta già iniziando a procurare un doloroso effetto collaterale (lo spread). Interessante. Certo però che, a vederla così, un malizioso potrebbe pensare che alla BCE non siano proprio degli sprovveduti e che in realtà lo spread sia il vero obiettivo del tapering. E, forse forse, quel malizioso non avrebbe tutti i torti.
Una delle più illustri vittime della crescita dello spread, com’è ormai noto, è il sistema bancario italiano. Un po’ meno nota è invece la ricaduta che il calo del valore dei titoli di stato detenuti dagli istituti nostrani produce sull’attività creditizia nel nostro Paese. Eh sì: grazie alle regole di Basilea ogni colpo inferto con la frusta dello spread si traduce in una contrazione dei finanziamenti a famiglie e imprese, con tutto ciò che ne consegue in termini di impatto su consumi e produzione industriale.
Ora, si dia il caso che il 2021 abbia segnato una ripresa economica del nostro Paese decisamente più pronunciata rispetto a quella della Germania. E si dia anche il caso che questo differenziale sia in ottima parte riconducibile a una crisi strutturale del modello industriale tedesco, che ha iniziato a navigare in cattive acque da ben prima dell’avvento del Covid-19, cominciando a perder terreno rispetto al nostro. Dunque sorge spontaneo il sospetto che alla BCE, dove aleggia un certo riguardo per i virtuosi interessi teutonici, abbiano pensato che non ci fosse nulla di meglio di una bella stretta creditizia in Italia per colmare questo divario. Una trovata non particolarmente nuova, ma sempre efficace.
E non è finita qui. Lo spread assolve anche a un’altra esigenza che a Francoforte è sentita con una certa urgenza. Dopo esser state immerse per anni da un mare di liquidità a basso costo a suon di LTRO e TLTRO (“targeted long term refinancing operations”), le banche dell’eurozona cominciano a sperimentare il contrappasso della lunga permanenza nell’effervescente regno dei tassi negativi. Gli asset sicuri ma remunerativi scarseggiano e così le banche commerciali si trovano a pagare un ticket sempre più consistente per depositare presso la BCE le proprie riserve in eccesso. L’impennata dei rendimenti dei titoli italiani costituisce così una brillante soluzione al problema: grazie alla bacchetta magica dello spread, banche e fondi finanziari ritrovano un porto sicuro e redditizio per i propri investimenti. Tutto quanto generosamente, e inconsapevolmente, offerto da noi italiani.
“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina” diceva una vecchia volpe della nostra storia repubblicana. Ecco, in questo caso non serve neppure troppa malizia. Basta aprire gli occhi per accorgersi di che bel pacchetto sia il tapering che stanno infiocchettando a Francoforte. E occhio ché, tanto per cambiare, sopra c’è un bigliettino con il nostro nome.