Esattamente trentatre anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il muro di Berlino.
È un evento epocale che, al di fuori della retorica più grettamente atlantista, segna un punto di svolta tutt’altro che nobile nella storia dell’Europa: i paesi oltre la cortina di ferro perdono improvvisamente lo status di “nemici dell’Occidente” e diventano tutt’a un tratto un’opportunità economica da sfruttare per il grande capitale.
Con la caduta del muro si assiste anche all’inizio di una nuova stagione per la narrazione offerta dai mass media - con metodologie e tematiche completamente rinnovate rispetto al passato - e al mutamento radicale delle stesse forme della competizione geopolitica. Rispetto a quanto successo da quel giorno, oggi sorge come non mai la necessità di formulare una nuova chiave di lettura capace di contrastare sia le banalizzazioni dell’anticomunismo di maniera tipico delle destre bluette, sia i deliri noborderisti che inneggiano a “un mondo senza muri né confini” delle sinistre fucsia.
La caduta del muro apre la strada per la riunificazione della Germania, che si conclude ufficialmente il 3 ottobre 1990. In Italia si festeggia: è una vittoria per l’Europa che - sembra passata un’eternità - a quei tempi non è ancora soggiogata al volere dell’Unione Europea.
Alcuni però non si fidano, sentono puzza di bruciato. Andreotti, commentando la possibile unificazione tedesca, dirà: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. La ragione di questo scetticismo è molto semplice, per quanto spesso omessa dai libri di storia: il processo di unificazione risponde soprattutto alla volontà della Germania Ovest di Kohl di avviare un processo di cannibalismo industriale all’interno dei nuovi confini nazionali, appropriandosi di un’economia in difficoltà ma con un enorme potenziale produttivo a basso costo. La ricetta della Germania Ovest per “liberare i fratelli orientali” (così dicevano loro) segue tre fasi:
1. imporre alla Germania Est la propria moneta con un tasso di cambio assolutamente incoerente rispetto alle reali condizioni delle due economie, distruggendo in una mossa la competitività delle produzioni orientali;
2. avviare la privatizzazione di tutte le aziende statali della Germania Est, con particolare attenzione (e urgenza) verso i settori industriale, bancario ed energetico;
3. disinteressarsi completamente alle politiche occupazionali in Germania Est, costringendo i giovani e i professionisti qualificati a emigrare da Est verso Ovest.
In questo processo emerge inoltre la complicità, più o meno volontaria, della Francia di Mitterand: dopo essersi opposto, almeno a parole, all'unificazione della Germania per paura di possibili mire espansionistiche, il capo di stato francese si attiva per integrare il più in fretta possibile il nuovo paese alla Comunità Economica Europea. La strategia è tanto ottimistica quanto ingenua, poiché punta ad “addomesticare” la Germania imponendole l’adesione al processo di integrazione monetaria (che avrebbe portato nel giro di pochi anni alla nascita dell’Euro) in cambio della rinuncia al marco (in quel momento molte forte). La Germania accetta immediatamente, consapevole che questa impostazione le avrebbe permesso di favorire l’economia interna ed attaccare frontalmente i rivali industriali dell’Italia.
Il resto è storia: Mitterand ha avuto torto, Kohl ha avuto ragione, la già potente macchina produttiva tedesca è diventata inarrestabile e le politiche mercantilistiche sono diventate la prassi all’interno dell’Unione Europea. E l’Italia? L’Italia si è semplicemente e vergognosamente adeguata, tenuta in ostaggio dagli interessi dei grandi gruppi industriali privati, dalla miopia di una classe politica inadeguata e dalla narrazione a senso unico dei media: universi che, in un Paese normale, dovrebbero vivere ognuno con la propria autonomia e indipendenza ma che qui da noi continuano pericolosamente a convergere. Tralasciando la solita e noiosissima retorica sulla Guerra Fredda, quello che ha dovuto subire la Germania Est nel processo di riunificazione non è poi tanto diverso da quanto successo all’Italia con la nascita dell’Unione Europea: l’unica differenza è che noi possiamo ancora fermare questo processo, a patto di accettare una volta per tutte che la nostra salvezza non può passare da “riforme” o “modifiche dall’interno” - come alcuni partiti pseudo-sovranisti sostengono - ma solo dall’uscita definitiva dai trattati europei e dalla moneta unica.