Le periferie delle città italiane raccontano molto della nostra storia recente. Abbiamo a che vedere con un problema che viene spesso snobbato con sufficienza, quasi fosse un orpello di poco conto. Eppure questo problema, se affrontato con decisione, potrebbe rappresentare un’occasione di rilancio economico, sociale e artistico per l’Italia.
Dal dopoguerra ad oggi, i piani di urbanizzazione presi a modello per lo sviluppo delle città italiane hanno prodotto effetti nefasti. Seguendo acriticamente i dettami dei guru dell’architettura moderna (come Le Corbusier, padre dello squallore urbano del XX secolo, purtroppo osannato nelle facoltà di architettura) e piegandosi alle richieste delle lobby del petrolio e del trasporto su gomma (interessate al continuo consumo di benzina) si è scelto di far sviluppare i nostri centri urbani a macchia d’olio. E senza il minimo rispetto del retaggio storico e stilistico del luogo. La zonizzazione ha creato quartieri ghetto, centri commerciali avvilenti, brandelli urbani senza senso.
Non serve essere un esperto del settore per notare la discrepanza visiva tra i meravigliosi centri storici d’Italia, dal tessuto urbano compatto e ricco di caratteristiche ben inserite nel paesaggio, e le orribili periferie cresciute loro attorno. Palazzi anonimi, parallelepipedi grigi progettati da menti fredde interessate esclusivamente al profitto, stradoni desolati e desolanti, spiazzi di cemento scialbi. Luoghi senz’anima, incapaci di generare quel senso di bellezza ed armonia che invece pervade il centro di Roma o di Firenze, di Assisi o di Monopoli, di Bergamo o di Terracina, insomma della preponderante maggioranza delle città grandi e piccole sparse sulla penisola.
Come è potuto accadere?
Architetti egocentrici e politici miopi (o collusi) hanno fatto scempio del paesaggio italiano.
Potete notarlo facendo un viaggio in macchina e guardando dal finestrino uno dei tanti paesetti arroccati su un monte solitario: vedrete le deliziose costruzioni tradizionali, in cima, assediate dai palazzi di più recente costruzione. La rappresentazione, in verticale, di ciò che è accaduto dalle Alpi alla Sicilia. È come se, improvvisamente, un cancro di cemento e asfalto fosse cresciuto alle pendici del borgo. Due stili totalmente diversi, due idee di città in contrapposizione, pressate una contro l’altra. Da una parte la Storia e l’appartenenza, dall’altra la banalità e l’alienazione.
Noi, il giardino d’Europa, abbiamo smesso di costruire bellezza. Perché?
Un nuovo Rinascimento
Ora, se vogliamo realmente risorgere e rigettare la forza nullificante del globalismo (che si nutre anche dell’alienazione urbana, nemica dell’identità, e di cui è permeata l'impalcatura ideologica dell'Unione Europea), dobbiamo affrontare anche questa questione. E possiamo farlo tramutando il problema in fonte di sviluppo, guadagno e riscatto.
L’Italia ha bisogno di un piano mastodontico di rinascita urbanistica. A partire dalle periferie. Le quali non vanno semplicemente “ridipinte” e “colorate”. Alcuni piani di “riqualificazione” puntano solo a sostituire lo squallore esistente con lo squallore ordinato dell’architettura modernista, eccessivamente razionalista ed allergica a qualsivoglia richiamo all’identità del posto. Ciò che occorre, in molti casi, è la ricostruzione in toto delle periferie italiane.
Lo Zen di Palermo, il Corviale a Roma, Scampia a Napoli… sono solo alcuni degli esempi di architettura criminale e urbanizzazione scriteriata. Dobbiamo tornare a costruire riscoprendo la nostra tradizione e coniugandola alle ultime tecnologie.
Chi lo ha detto che una casa, per essere definita moderna, debba essere un cubo di ferro e vetro? O che la stampa 3d non possa convivere con i mattoni e la pietra? E per quale motivo le nostre metropolitane non devono riflettere, sia all’esterno che all’interno, l’unicità della città in cui si trovano?
Qui sta la sfida. Una sfida che deve essere lanciata a giovani architetti che sappiano ragionare fuori dagli schemi imposti negli ultimi anni. Magari sotto la supervisione di architetti come Ettore Maria Mazzola o Pier Carlo Bontempi. I quali hanno dimostrato, portando esempi storici e attuali, come il modo di costruire tradizionale sia più sicuro, più economico e doni una qualità di vita immensamente superiore ai bruttissimi palazzi e quartieri odierni.
L’obiettivo è cancellare il concetto stesso di periferia dal vocabolario dell’urbanizzazione italiana. Roma deve risplendere di luce propria anche a San Basilio e a Tor Bella Monaca. Siamo il paese che dovrebbe mettere la difesa della bellezza nella sua Costituzione.
Considerata la mole di lavoro mastodontica che ci aspetta, va messa in preventivo una spesa davvero ingente. Miliardi di euro. Ma non potrebbe esserci investimento più redditizio: costruttori, architetti, ingegneri, muratori, informatici, artisti, studenti… la rimessa a nuovo delle nostre città metterebbe in moto una parte considerevole della nostra economia. L’Italia diverrebbe un laboratorio di idee che attrarrebbe qui anche menti provenienti dall’estero. Insomma: un nuovo Rinascimento.
Senza contare che i cittadini italiani ne gioverebbero tantissimo: la qualità della vità nelle città conoscerebbe un’impennata mai registrata. Anche il senso civico ne trarrebbe beneficio, poiché è risaputo come l’attaccamento e l’amore verso il luogo in cui si vive contrastano naturalmente i comportamenti incivili. Viceversa, un ambiente non curato, anonimo e sostanzialmente brutto non invoglia gli abitanti a rispettarlo.
Certo, nessuno dice che la cosa sia facile, anzi. Gli ostacoli burocratici, economici (in questa fase storica di mancanza di sovranità monetaria, decisivi) e persino ideologici (molti professoroni di architettura farebbero quadrato attorno alle brutture moderniste) sono tanti ed ostici. Ma la volontà politica può superarli.
Pro Italia è fermamente convinta che questa strada genererebbe un circolo virtuoso senza precedenti. Una sferzata di energia, ricchezza ed orgoglio in grado di alimentare l’Italia per decenni, se non di più. Ecco perché dedicheremo a questa visione un'intera parte del nostro programma.