Ogni tanto mi piace pensare che nelle cantine di Montecitorio esista un vecchio scatolone impolverato con la scritta "COSE DAVVERO UTILI FATTE IN PRIMA REPUBBLICA" e che, aprendolo, spunti fuori la Legge Marcora del 1985.
Chi era costui? Cosa voleva dalle nostre vite? Perché dovremmo parlare di leggi di quasi mezzo secolo fa?
Giovanni Marcora è stato un democristiano tutto sommato rispettabile: di formazione dossettiana, amico di Enrico Mattei, fu Ministro dell'Agricoltura (1974-1980) e dell'Industria (1981-1982). Erano gli anni in cui un gruppo di pazzi enunciava le regole del mercato unico europeo e, pur con tutti i limiti di uno scudocrociato, Marcora cercò di tutelare gli interessi del sistema produttivo italiano affinché non venisse travolto - e stravolto - dal nuovo ordinamento. Curiosamente esistono due "Leggi Marcora": una è del 1972 e riguarda l'istituzione del servizio civile in alternativa al servizio di leva; l'altra è la summenzionata legge del 1985 che gli è stata intitolata nonostante fosse morto nel 1983 (era già pronta nel 1981 ma poi, sai, tra una crisi di Governo e l'altra, il tempo vola).
Tale legge definiva alcuni strumenti tuttora esistenti (anche se con denominazioni diverse) a supporto delle società cooperative e - per la prima volta - introduceva il concetto di "cooperative finalizzate alla salvaguardia dell'occupazione", ovvero cooperative costituite dai dipendenti di aziende a rischio chiusura che decidevano di subentrare alla vecchia proprietà: ad essi si offriva la possibilità di ricevere gli importi della cassa integrazione o dell'indennità di disoccupazione secondo modalità agevolate a patto che fossero reinvestiti nella cooperativa e, dunque, nell'azienda. Oltre a ciò, si predisponeva la creazione di società a partecipazione pubblica che avrebbero dovuto facilitare l'accesso al credito e la costruzione di reti di imprese. Detta così può sembrare una stupidaggine ma, rispetto alle condizioni contingenti (la crisi energetica, la stagflazione dopo la fine del "trentennio d'oro", il terrorismo, i primi segnali di iper-finanziarizzazione dell'economia), quella rottura con la vecchia prassi capitalistica - massimizzare la remunerazione del capitale infischiandosene di tutto il resto - ha rappresentato un enorme atto di coraggio politico che negli anni successivi ha salvato migliaia di posti di lavoro e ne ha contestualmente creati di aggiuntivi.
Non vivo sotto un sasso perciò so benissimo che, quando in Italia si parla di cooperative, la mente corre subito alle famigerate "coop rosse" e al ricco catalogo di scandali, truffe e ruberie architettate per mezzo di questa forma societaria. È un riflesso assolutamente comprensibile: io stesso sarei lieto di bannarle in quei settori - sanità in primis - dove è palese che le tanto decantate "finalità mutualistiche" sono usate come copertura burocratica e fiscale per finalità molto meno nobili. Vi sono tuttavia dei casi in cui la loro particolare struttura - tra l'altro prevista dall'articolo 45 della «cchiù bell' ro munn'» - si presta incredibilmente bene a sperimentazioni socio-economiche dal potenziale ancora tutto da esplorare: sarebbe da idioti non rendersene conto o, peggio, escluderle a priori per via della loro cattiva reputazione.
Per spiegare tale ragionamento partirò proprio dalle premesse che hanno portato alla Legge Marcora. Le riscrivo, casomai non fossero chiare: la crisi energetica, la stagflazione dopo la fine del "trentennio d'oro", il terrorismo, i primi segnali di iper-finanziarizzazione dell'economia. Vi ricordano qualcosa? Ad esclusione delle P38 e di altre amenità tipiche degli Anni di Piombo, non parliamo di nulla di così diverso da quanto ci ha accompagnato nell'ultimo decennio. Sono crisi strane, queste: non mancano né le materie prime né la forza lavoro né la domanda, eppure i meccanismi di movimentazione dei denari - ritenuti affidabili, rodati, efficienti - continuano ad incepparsi all'improvviso se avvertono un qualsiasi segnale di instabilità (vera o presunta) mandando tutti nel panico. Spesso ci si ritrova dunque in scenari paradossali dove aziende "competitive" - per usare un termine caro ai fan del libero mercato - chiudono o falliscono per mere questioni speculative: i manager adottano un atteggiamento prudenziale (cioè smettono di investire) pressati dai proprietari, a loro volta pressati dalle banche e dai creditori, e, alla fine, pensate un po', a rimetterci sono sempre e solo i dipendenti.
La Legge Marcora nasceva, tra le altre cose, per cercare di rispondere ad una caso simile. Il nostro amico democristiano era infatti anche il sindaco del suo comune di origine in provincia di Milano, Inveruno, a poca distanza da un'importante area produttiva specializzata in ceramiche nata più di un secolo prima: a partire dagli Anni '60 l'azienda controllante scivola in uno di quei vortici di vendi-compra-spolpa-ingloba che andavano di moda nel periodo e, all'improvviso, nel 1981, viene chiusa. Andava male? Non trovava operai qualificati? Era finita l'argilla? I prodotti erano invendibili? Macché. Semplicemente, durante l'ennesimo cambio di proprietà del gruppo di cui nel frattempo era entrata a far parte, il nuovo assetto societario non venne considerato soddisfacente e allora, nel dubbio, si optò per abbassare le saracinesche e indirizzare i capitali altrove: a quel punto, alcuni lavoratori, con il supporto delle amministrazioni locali, si costituirono in cooperativa per rilevare uno degli stabilimenti e continuare la produzione. Pur non trattandosi del primo salvataggio in assoluto effettuato con queste modalità, la vicenda suscitò forte curiosità nell'opinione pubblica e ciò spinse il mai banale Spadolini - da poco diventato Presidente del Consiglio - a chiedere a Marcora di procedere con la creazione di norme specifiche sul tema.
Debbo riconoscere che leggere il dibattito che ne scaturì a livello politico, sindacale e produttivo è oggettivamente una boccata d'aria fresca per chi arriva da peculiari ambienti con la passione per l'interclassismo, il primato del lavoro e i decreti legislativi del 12 febbraio 1944. Certo, dopo un po' ti sale l'incazzatura: pagine e pagine di resoconti in cui i protagonisti parlano apertamente di "terza via", "co-gestione", "produttori" e "socializzazione" senza il benché minimo riferimento a chi costruì un'intera traiettoria politica e idologica attorno a questi capisaldi. Ma al netto delle acrobazie dialettiche - abbastanza prevedibili, ad essere onesti - l'obiettivo politico è comunque quello giusto: accertata l'impossibilità di far sparire il fattore capitale con una bacchetta magica, si rende fondamentale il potenziamento di modelli partecipativi in grado di opporsi al ricatto arbitrario e parassitario che esso può ritrovarsi ad esercitare. Per farlo, si predispongono canali preferenziali affinché siano gli stessi lavoratori - ossia coloro che contribuiscono maggiormente al processo produttivo con il loro sudore, le loro competenze e le loro esperienze - a diventare a tutti gli effetti parte integrante della proprietà dell'impresa mentre lo Stato si muove come una sorta di "garante" assicurandosi che la fase transitoria si svolga senza intoppi e al riparo da pericolose ingerenze esterne. Lungi dall'essere una norma perfetta, il compromesso raggiunto era a mio avviso più che accettabile: se fossi stato vivo all'epoca, avrei detto qualcosa come «il Pentapartito ha fatto anche cose buone».
Insomma, una bella storia a lieto fine? Nì. La "Società Ceramica Industriale Cooperativa Verbano" - questo il nome dato alla storica cooperativa da cui era partito tutto - non esiste più dal 1997 e lo stabilimento è destinato alla demolizione: dopo aver salvato un centinaio di posti di lavoro, ha chiuso a causa dell'elevato indebitamento e della crescente competizione proveniente dall'Asia. Se non altro, tra le varie società sorte dopo le piroette aziendali del 1981, è stata quella che è rimasta più a lungo in attività nonché l'unica ad aver realizzato un piano industriale. Un epilogo simile è toccato alla stessa Legge Marcora, che dal 2001 è stata massicciamente riformulata più volte assecondando i diktat della Commissione Europea in materia di concorrenza e aiuti di Stato: burocrati e accademici sono soliti usare il termine "nuova Marcora" ma, sia per i tagli alla dotazione che per i requisiti per accedervi, è evidente che la continuità sia ormai puramente formale.
Dare un giudizio univoco sugli effetti della Legge Marcora - "vecchia" o "nuova" che sia - risulta relativamente complicato. Oggi le operazioni di subentro dei lavoratori vengono chiamate "workers buyout" o "imprese rigenerate" (più pop, più cool, più social): si stima che, nel corso degli anni, siano state circa 400-500 e che il tasso di sopravvivenza delle nuove società sia superiore all'80%. Ecco il problema principale, ossia il doversi accontentare di semplici "stime": per un motivo o per l'altro, è venuta a mancare la regia del potere pubblico e non è raro imbattersi in episodi ove i dipendenti hanno dovuto indebitarsi privatamente e partecipare all'asta fallimentare senza diritti di prelazione. Oltre alle tempistiche dilatate - che potrebbero compromettere il rilancio della produzione - sorge il rischio di essere costretti a combattere contro speculatori estranei all'azienda a cui non frega nulla della "continuità occupazionale". Magari i lavoratori non sapevano della legge? Oppure la conoscevano ma l'hanno reputata inadatta per le loro necessità? O, ancora, hanno provato a sfruttarla ma sono scappati a gambe levate dopo aver appreso della mole di scartoffie richieste? Se non si passa dalla Marcora, vale lo stesso come "workers buyout" o bisogna usare un'altra etichetta? Cambia poco, in sostanza: tra Camere di Commercio, tavoli di crisi, Invitalia, dossier, conf-questo e asso-quello, è inconcepibile che i giaccacravattati ministeriali non operino in maniera proattiva - e, soprattutto, preventiva - di fronte a situazioni già scricchiolanti ma che potrebbero essere recuperate senza passare dallo shock dei libri in tribunale. Sono dei mentecatti? Sanno ma fanno finta di non sapere? Manca la volontà politica? Su questo tornerò dopo.
Per fortuna, nonostante le avversità, abbiamo anche delle belle storie di successo. Qualche giorno fa, ad esempio, i media hanno parlato dei record della Cartiera Pirinoli di Roccavione (Cuneo): fondata nel 1872, sopravvissuta a due guerre mondiali, agli inizi del terzo millennio era considerata un colosso a livello europeo. Quando il settore della carta va in crisi, viene rilevata da un gruppo di imprenditori: la nuova proprietà dura a malapena un lustro e nel 2012 la Pirinoli finisce in liquidazione. Dei 154 dipendenti licenziati, circa la metà si costituisce in cooperativa e nel 2015 riesce a ricomprarsi l'azienda all'asta con i soldi delle indennità di mobilità e con il supporto del CFI (l'organo del Ministero dello Sviluppo Economico, istituito dalla Legge Marcora, che si occupa di queste operazioni). I numeri del bilancio 2022 descrivono un piccolo miracolo strapaesano: 78 soci alla pari, 97 dipendenti, 64 milioni di fatturato (nel 2015 avevano chiuso a 5 milioni) e 8 milioni di utile che verranno destinati, in parte, per nuovi investimenti. Tutto questo, rammentiamolo, nell'annus horribilis per le aziende energivore (di cui Pirinoli fa ovviamente parte) come conseguenza della questione ucraina. E io dovrei impietosirmi con i piagnucolii dei cummenda che delocalizzano le fabbriche e che spostano le sedi nei paradisi fiscali? Ma inculatevi.
Oltre alla Pirinoli, si possono citare altre aziende come la Fenix Pharma di Pomezia, il Birrificio Messina (no, non mi interessano le puttanate complottare su Bill Gheiz), la Italcables di Caivano, la ex Ceramisia vicino a Perugia, la Greslab di Scandiano, la Calcestruzzi Ericina di Trapani, la ex Lafer di Acerra, la Reno Fonderie di Bologna, le Carpenterie Metalliche Umbre, la Fonderia Dante in provincia di Verona, la Legatoria Zanardi a Padova: basta leggere i nomi per capire che queste cooperative si occupano di industria e produzione - roba seria, roba grossa - e condividono ben poco con le cooperative farlocche che mandano gli ex drogati e gli immigrati irregolari a raccogliere i mozziconi nei parchetti cantando "Bella Ciao". Poi, vabbè, c'è sempre l'eccezione che conferma la regola: mi riferisco alla ex Maflow di Milano, che operava nel settore della componentistica automotive e che è stata "rigenerata" da una cooperativa che produce l'ambiziosa "Vodka antisessista Kollontai" e l'imprescindibile "Amaro Partigiano". Su Wikipedia c'è scritto che si occupano di smaltimento di rifiuti: mi sembra coerentissimo.
Tolti questi ultimi - che lascio volentieri ai loro deliri sull'antifascismo e sul fatto che gli altri esempi di "workers buyout" non siano sufficientemente "solidali" o "inclusivi" - parliamo di persone pragmaticamente e genuinamente ancorate alla realtà economica e sociale del Paese. Nelle interviste descrivono le difficoltà, i sacrifici, le paure, le rinunce, talvolta persino i litigi tra soci in assemblea, ma alla domanda «Lo rifaresti?» non ce n'è uno che dica di no: sono orgogliosi di aver difeso la loro dignità di lavoratori e, inutile nasconderlo, di aver dimostrato le loro capacità gestionali in mondi che di solito considerano le tute blu come bifolchi che hanno imparato ad usare un tornio. E qui torno alla polemica accennata poc'anzi sulla "pigrizia" più o meno volontaria delle istituzioni. Riprendiamo la vicenda Pirinoli: come visto, l'intervento pubblico è arrivato tramite il CFI (il fondo per la Cooperazione Finanza e Impresa), l'azienda è partita con il piede giusto e ha prodotto apprezzabili esternalità positive per l'area interessata. C'è però un "buco" di tre anni - dalla messa in liquidazione della vecchia società nel 2012 fino alla riapertura con la cooperativa nel 2015 - in cui 'sti poveri cristi, insieme all'allora sindaco di Roccavione (2.500 abitanti, non una metropoli), hanno dovuto fare i salti mortali per essere ascoltati dai pezzi grossi nei Palazzi. Non è stato l'espertone Corrado Passera, ai tempi titolare del dicastero nel Governo Monti, a telefonare in Municipio e dire «Ho saputo della brutta notizia ma non preoccupatevi: esiste questa possibilità per non finire in mezzo alla strada. Ci vediamo domani a Roma e partiamo» bensì il commissario liquidatore che ha suggerito ai dipendenti di fare un tentativo con tali strumenti e li ha aiutati con i primi passi! Capite? Se possiamo parlare della virtuosissima Pirinoli nel 2023 è solo per una botta di culo, per un'intuizione nata dalla disperazione, per una fortunata coincidenza. E se avessero trovato un commissario menefreghista o ignorante sull'argomento? Ma soprattutto: quante altre imprese e quanti altri posti di lavoro si sarebbero potuti salvare durante le ultime crisi? Perché, per dirne una, hanno lasciato morire la Embraco di Torino dando 20 milioni di euro a dei tizi privi di credenziali - che poi li hanno usati per viaggi e auto di lusso - anziché aiutare i 400 dipendenti a rilevarla? Perdo la ragione se penso che abbiamo dovuto aspettare il 2013 per mettere nero su bianco il diritto di prelazione in favore degli ex dipendenti e addirittura il 2020, il coviddì e il Ministro Patuanelli (!) per stabilire che non bisogna per forza arrivare ad un millimetro dal default per poter attivare la procedura.
Non lo so, forse ci hanno davvero fatto il lavaggio del cervello con la fregnaccia del «potremmo vivere solo di turismo» e nessuno sente l'urgenza di tenere gli occhi aperti su cosa succede tra le PMI? Temo che l'ipotesi più probabile sia al contrario una certa progettualità, proveniente tanto dai centri di potere economico in Italia quanto dalle strutture sovranazionali, a cui la classe politica nostrana si è adeguata. Del depotenziamento della Legge Marcora nel 2001 su input fatto pervenire dalla Commissione Europea abbiamo già detto: nulla di inconsueto rispetto alla nota impostazione liberista del canchero giallo-blu sugli aiuti pubblici. È invece assai sospetta la precisione chirurgica con cui si è andati a colpire una legge che, parliamoci chiaro, non aveva stravolto chissà quali equilibri nella libera concorrenza (non era neanche quello l'obiettivo, d'altronde). Perché allora cotanto accanimento contro una manciata di cooperative microscopiche? La risposta giace in un'altra domanda. Chi aveva il maggiore interesse a sbarazzarsene? Il nome inizia per "C" e finisce per "onfindustria". Non pervenuti nella discussione sulla crisi occupazionale di fine Anni '70 (forse perché alcuni associati ne erano responsabili?), nel 1995 sono loro a chiedere agli uffici di Bruxelles di avviare una procedura di infrazione contro l'Italia nei riguardi della Legge Marcora. Che tempismo, che classe: mentre la globalizzazione entrava nel suo stadio finale e definitivo - il merdaio (scusate, mercato) senza regole in cui siamo costretti a vivere - i proprietari del Sole 24 Ore si stracciavano le vesti di fronte all'ignobile attività di tutela riservata ai cassintegrati che non volevano finire in coda alla Caritas. OVVOVE!
I motivi di questa ingerenza (delazione?) sono presto spiegati: la Legge Marcora e la filosofia ad essa adiacente avrebbero potuto creare precedenti pericolosi allo scoppio delle inevitabili crisi che stavano prendendo forma, in Italia e nel resto del mondo, negli Anni '90. Il primo aspetto riguarda proprio il desiderio, da parte di Confindustria, di preservare il suo potere negoziale e il suo ruolo di interlocutore (quasi) esclusivo in tema di aiuti di Stato: checché se ne dica, infatti, nell'Unione Europea si sono sempre trovati degli escamotage (decreti, assegnazioni dirette, salvataggi strategici, bandi speciali) per spostare soldi dalle casse pubbliche alle aziende private nei momenti di grave instabilità. Chi partecipa alle trattative? I rappresentanti delle associazioni di categoria, i proprietari e i manager che parlano di fantasmagorici "piani di rilancio" con la certezza che, una volta partito il bonifico, nessuno andrà più a controllare i risultati. E se invece fosse previsto anche un canale alternativo dal "basso"? Immaginatevi un gruppo di dipendenti che, potendo contare sul supporto del CFI, si presenta al tavolo spiegando che «il piano è irrealizzabile e avrà comunque conseguenze catastrofiche. Noi abbiamo elaborato un progetto diverso per rilevare l'azienda e preservare l'occupazione»: messo dinanzi ad una pluralità di proposte, lo Stato può dunque tornare a rivendicare un ruolo da decisore nelle sorti dell'economia nazionale anziché limitarsi a ricevere ramanzine dalle colonne del giornale salmonato. Il secondo aspetto rientra in una casistica simile, ovvero la volontà di non incorrere in possibili ostacoli durante acquisizioni e scalate predatorie. L'azienda X scopre che il suo concorrente Y è in crisi e prova a comprarlo per quattro noccioline e due olive con l'obiettivo di "sinergizzarla" (tradotto: prendersi i clienti e il know how per poi licenziare tutti i lavoratori considerati superflui): una controfferta da parte dei dipendenti di Y rischierebbe di far saltare l'operazione. Per evitare spiacevoli contrattempi, nel 2001 il legislatore ha stabilito che il CFI non avrebbe più potuto triplicare il capitale messo dai lavoratori ma, al massimo, pareggiarlo. Inoltre, tale somma non era più da considerarsi a fondo perduto bensì doveva essere restituita entro dieci anni: ufficialmente i workers buyout con l'intervento del fondo pubblico non venivano vietati, tuttavia, nella pratica, questa configurazione iniziale più incerta, rischiosa e fragile ne riduceva enormemente l'appetibilità.
Il terzo aspetto, infine, è una mia supposizione (quindi potrei sbagliarmi, ma non credo). I dati - anzi, le odiate "stime" - ci raccontano che la maggior parte delle imprese che intraprendono questo percorso vive più a lungo, cresce organicamente con nuovi soci/dipendenti e raggiunge buoni livelli di performance in settori, tra cui alcuni del cosiddetto "Made in Italy", non facilissimi. Ora prendete questo aspetto e confrontatelo con il dilemma cronico che attanaglia la nostra ridente penisola circa la "produttività", la "sostenibilità" (economica, non green) e la "competitività" degli opifici: prima o poi qualcuno tornerà a studiare un qualche tipo di correlazione e a proporre l'adozione di altri modelli, no? Purtroppo, finché i workers buyout resteranno meno di una dozzina all'anno, i cacadubbi e i difensori dello status quo potranno sempre barricarsi dietro a «ehh, ma sono casi isolati che non fanno statistica».
Un ambito di indagine davvero semplice da cui partire potrebbe essere, ad esempio, il risvolto della convergenza degli interessi tra capitale e lavoro che, con i workers buyout, arrivano direttamente a coincidere. A patto di non fare gli schizzinosi o gli schizofrenici, l'Italia ha una consolidata tradizione di pensiero - e di pensatori - sul tema: da Mazzini al camaleontico Fanfani, passando per la Rerum Novarum e per la "Poesia stessa del XX secolo", c'è solo l'imbarazzo della scelta. Anche l'articolo 46 del pluripremiato e pluriosannato documento del 1948 si lancerebbe in avventurose proposte ma, ahinoi, non ha riscosso particolare successo nel secondo dopoguerra. Nessuno di questi si è mai messo a fare gli schemini o le equazioni per spiegarne la bontà, anzi: la dimensione materiale della faccenda è mero contorno in analisi profondamente metafisiche sulla "ricerca del senso" del lavoro. Basterebbe quindi evidenziare il trait d'union tra siffatto impianto teoretico e la manifestazione empirica che più vi si avvicina - le imprese rigenerate - per arrivare a conclusioni capaci di confutare i dogmi con cui i padroni del vapore fanno la voce grossa da troppo tempo. Dubito che esse potranno maturare nelle sinapsi di Giorgetti, Urso o Landini, ma chi o cosa ci impedirebbe di sviluppare, un domani, una consapevolezza diversa? Magari si scoprirà che l'ingrediente segreto sarà proprio l'adozione della "co-gestione" in chiave strutturale e a prescindere dalle dimensioni o dallo stato di salute dell'azienda. Questo non significherà invitare occasionalmente un operaio a fare la comparsa nelle riunioni del CdA (cosa che già accade in talune multinazionali che millantano il perseguimento di obiettivi "etici" per rendere più digeribili i licenziamenti, le chiusure e gli incentivi all'uscita) bensì introdurre prassi e organi statutari in grado di incidere tanto sulla conduzione dell'azienda quanto sulla successiva equa ripartizione degli utili.
Non fraintendetemi: non è un cambio di marcia che si può realizzare in un paio di anni con la granitica certezza che non avrà controindicazioni. Chi pensa che l'economia - a livello micro e macro - sia una scienza esatta (dunque prevedibile, ripetibile, dimostrabile) è da considerarsi un alienato dalla realtà indipendentemente dal fatto che dica cose a noi gradite o meno: in questo strambo mondo 1+1 non è sempre automaticamente uguale a 2. L'istinto, per alcuni, potrebbe essere quello di ricopiare l'esperienza della Mitbestimmungsgesetz - il modello partecipativo dei crucchi - ignorando però un piccolo dettaglio: se oggi è un caso di studio internazionale è anche grazie alle mutate condizioni esogene affermatesi negli Anni '70 che si sono rivelate favorevoli per il sistema produttivo tedesco mentre l'Italia ha dovuto rispondervi con la Legge Marcora per provare a limitare i danni.
Chiediamoci piuttosto come intendiamo inserirci in questo discorso e se possiamo permetterci di lasciare l'esclusiva dell'iniziativa ideologica a sigle e contesti velleitari che sicuramente la trasformeranno in merda liquida. Per ora, il campo è abbastanza libero: l'unica prerogativa è quella di trovare il coraggio per riconsegnare alle «grandi folle agitate dal lavoro» un mito in cui identificarsi. Poi magari sarà anche buono, ma pensare che questo possa essere il fottutissimo "Amaro Partigiano" mi toglie il sonno.
PS: se la Germania non esce in fretta dalla recessione, preparatevi ad un 2024 mooolto caldo per le PMI italiane.
PPS: solidarietà agli ignari iscritti delle CGIL che dovranno sorbirsi i capricci del loro boss ormai lanciato verso la segreteria del Piddy.