Ogni volta che si avvicina il 25 aprile, in Italia cala una cappa di densa ipocrisia. Le istituzioni fanno sbocciare qua e là coccarde tricolori, i politicanti rilasciano tonnellate di banalità a favor di telecamera, nei palazzi risuonano la nenie registrate per l’occasione. Nel frattempo, nel resto del Paese si percepisce l’odore acre di una vecchia ferita che si riapre e tra gli italiani aleggia un tacito accordo: approfittiamo di questo giorno di festa e godiamoci una gita fuori porta, ma che non si tocchi l’argomento.
Con il passare degli anni la festa della liberazione è infatti diventata una ricorrenza sempre più divisiva, andando ben oltre le contrapposizioni della guerra fratricida deflagrata in quel drammatico 8 settembre del ’43. Contrapposizioni che, all’indomani della fine del conflitto mondiale, con straordinaria saggezza si tentò di conciliare e ricomporre in nome dell’interesse nazionale.
Tra i nostri padri costituenti figurano non per nulla personalità straordinarie che furono parte attiva, come tanti italiani, del ventennio fascista. Pensiamo soltanto ad Amintore Fanfani, quel professore di studi corporativi che presentò all’assemblea la formula “Repubblica fondata sul lavoro” per il primo articolo della nostra Costituzione, o ad Aldo Moro, che prima di diventare una grandiosa icona dell’antifascismo cristiano prese parte a manifestazioni di cultura fascista come i littoriali. E per cogliere lo spirito che animò quella conciliazione non si può non ricordare Palmiro Togliatti: lo stesso segretario del PCI che in costituente propose il divieto di ricostituzione del partito fascista chiese anche di non formulare un articolo che potesse fornire un “pretesto a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse”. Perché “se in Italia nascesse domani movimento nuovo, anarchico, lo si dovrebbe combattere sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi solo perché si rifiutano alcuni dei loro principi.”
Chi stese la nostra Costituzione dimostrò una maturità e un equilibrio che oggi risultano spariti. Il 25 aprile è ormai monopolizzato da una parte politica che, rinnegando la composizione eterogenea del fenomeno della Resistenza, ne ha fatto una celebrazione delle proprie posizioni ideologiche. L’antifascismo stesso, svuotato del suo significato storico, è diventato un marchio glitterato da apporre su idee che avrebbero inorridito gli stessi partigiani. Tra le fila di chi canta “Bella ciao” troviamo oggi i più feroci nemici della sovranità nazionale che sfilano tra bandiere della Nato e vessilli di Bruxelles. Al contempo, l’altra ala del parlamento anima la zuffa contestando alla controparte forme ed espedienti pre-politici, ma alla fin fine concorda su tutte le questioni politiche sostanziali. Prime fra tutte l’adesione incondizionata al bellicismo atlantista e al paradigma del mercato assoluto, che mai il fascismo avrebbe potuto lontanamente caldeggiare.
Perché l’Italia possa tornare nella Storia domani è necessario che faccia propria la Storia di ieri. Solo prendendo coscienza di ciò che è stata la sanguinosa guerra civile che ha vissuto il nostro Paese sarà possibile uscire dalle sabbie mobili del novecento. Il 25 aprile va celebrato perché è giusto ricordare il sacrificio di chi con il sangue ha conquistato la vittoria in un conflitto, specie se questa vittoria ci ha offerto il dono, oggi tragicamente disinnescato, della democrazia. Ma il 25 aprile va anche storicizzato. Ne va riconosciuta la complessità, abbracciandone ogni sfaccettatura, tragica o gloriosa che sia, accettando che sia i vincitori sia i vinti abbiano plasmato la nostra Storia e forgiato la nostra comunità.
Solo a partire da questa consapevolezza, dalla consapevolezza di chi siamo stati, sarà possibile capire chi siamo oggi noi italiani. E dunque iniziare a scrivere una nuova pagina della nostra Storia. Insieme.