Puntuale come un’orologio svizzero, anzi belga, è arrivata la pagella della Commissione europea al documento di bilancio predisposto dal Governo Draghi per il 2022. Il risultato è stato piuttosto scontato: una promozione della manovra, che risulta soddisfare le richieste elaborate nel corso del semestre europeo, accompagnata dal canonico richiamo alla prudenza nella spesa corrente in virtù dell’alto debito pubblico del nostro Paese.
In particolare, il vice-presidente Dombrovskis ha spiegato chiaro e tondo che la Commissione effettuerà delle “profonde revisioni” ai bilanci degli Stati marchiati da importanti “squilibri macroeconomici” in vista del rispristino del Patto di Stabilità. E di conseguenza – non c’è neanche bisogno di dirlo – lo sguardo severo, anzi austero, di Bruxelles sarà puntato sulla nostra spesa pensionistica e sulla riforma fiscale.
Nulla di nuovo, dunque? Quasi. L’unica notizia degna di nota, infatti, consiste nel fatto che sia stata la viva voce di un eurocrate di primissimo piano a confermare tutte quelle analisi (e tutti quei moniti) che andiamo ripetendo da mesi.
Dombrovskis infatti ha premurosamente ricordato che i prestiti della Recovery and Resilience Facility vengono contabilizzati come deficit strutturale (tanto per capirsi, quello soggetto alla regola del 3%) e che, come suggerisce la parola “prestiti”, vanno restituiti. I grants, i cosiddetti “contributi a fondo perduto”, invece provengono dal bilancio dell’Unione. Che – questo ve lo ricordo io semmai servisse – è un bilancio a saldo zero. Quindi la quasi totalità dei grants altro non sono che soldi nostri che tornano indietro, sotto condizione, dopo esser stati tributati a Bruxelles.
Eppure il significato delle parole del falco lettone non era certo volto a sottolineare la portata macroeconomicamente insignificante del principale strumento del Next Generation EU. Quello lo hanno ribadito fin troppi autorevolissimi analisti e solo coloro che non hanno le orecchie (o quel che ci sta in mezzo) non l’hanno ancora capito. L’obiettivo del discorso di Dombrovskis è stato chiarire una volta per tutte che il Patto di Stabilità tornerà nel 2023, e che quindi è opportuno che tutti i Paesi si preparino ad allacciare la cintura. O, meglio, a stringerla in vista del ritorno dell’austerity.
Ricordate tutti i “conlapandemialeuropaèdavverocambiata” e i “questavoltahacapitolalezione” che sono stati profusi nei mesi scorsi? Beh, eccovi la risposta. Direttamente dalle labbra del nostro eurocrate preferito. Preferito, beninteso, perché se non altro non si fa troppi scrupoli a dir le cose come stanno. Il Next Generation EU non serve a sostenere chissà quali politiche espansive, ma semplicemente a sfilare al nostro Paese quel poco di autonomia fiscale che gli era rimasta.
Ci accingiamo insomma ad affrontare il più significativo crollo del PIL della nostra storia repubblicana senza poter sfruttare davvero la leva del deficit pubblico. Cosa che, per fare uno di quei paragoni bellici che vanno di moda oggi nei telegiornali, è un po’ come andare in guerra armati con una pistola ad acqua. Per di più grazie alle “condizionalità” del Next Generation EU siamo obbligati a destinare una fetta massiccia delle risorse a disposizione alla “digitalizzazione” e alla “transizione ecologica”. Quando, tanto per dirne una, abbiamo i ponti che letteralmente cadono a pezzi.
E mentre noi ci arrabattiamo in queste miserie, dal Giappone arriva la notizia di un nuovo stimolo fiscale, il terzo degli ultimi due anni. 56mila miliardi di yen che, a occhio e croce, sono 430 miliardi di euro garantiti dalla Bank of Japan. Circa due terzi di tutto il cucuzzaro della Recovery and Resilience Facility, che si suddivide però fra 26 Stati e viene spalmato su sei anni.
Poveri giapponesi, loro non sanno che un domani dovranno espiare la gravissima colpa morale di avere una propria banca centrale. Meno male che invece noi italiani abbiamo qualcuno che ci tiene lontani dal peccato e pensa sempre al nostro bene, da lassù. A Francoforte.