Ed eccoci qua in compagnia della giornalista e scrittrice Enrica Perucchietti. Oggi iniziamo a trattare il tema del momento al tempo del Grande Reset: il mondialismo.
Nel nostro mondo del sovranismo costituzionale e antiglobalista si è molto sensibili fondamentalmente a due date. Il 1989 con la caduta del muro di Berlino, la fine dell'URSS e l'inizio del processo di globalizzazione. Ed il 2001 con l'attacco alle torri gemelle. L'inizio della strategia della guerra preventiva inaugurata dal neocon Bush, e l'entrata in vigore dell'euro. Questi sono sicuramente episodi cruciali che hanno segnato profondo cambiamento nelle nostre vite e segnano l'inizio degli effetti tangibili dell'ideologia mondialista, la quale però, come sappiamo, ha radici molto più profonde. Enrica dove e quando nasce il pensiero mondialista?
Se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del mondialismo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale, che lega, attraverso i secoli, una serie di “forze” e di “poteri” in una complicità di interessi e di azioni. La continuità ideale di questo processo l’abbiamo ravvisata con Gianluca Marletta in “Governo globale” (Arianna Editrice) a partire dalla Riforma Protestante: prima di questo periodo dobbiamo sospendere il giudizio, ammettendo con la modestia che dovrebbe contraddistinguere un ricercatore in buona fede di non essere in grado di spostare più in là l’asticella della ricerca storica. Se ci siano cioè origini “più lontane” nella storia non possiamo saperlo. Come documentiamo nel libro, la Riforma protestante, come in un effetto domino, “libera” una serie di energie destinate, col tempo, a prendere forma in un movimento trasversale: è proprio qua che affondano le origini filosofiche, storiche e religiose del mondialismo. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità, trova adesione e sostegno: un progetto nato inizialmente come contraltare all’universalismo della Chiesa cattolica e dell’Impero asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo nel Nord Europa.
Che ruolo ha in tutto ciò Comenius?
L’opera del filosofo boemo Comenius è indispensabile per comprendere le radici dell’idea moderna di un ordine globale da imporre a tutte le genti. Da questo punto di vista, non è un caso che proprio l’UNESCO – il “braccio culturale” dell’ONU – abbia curato la traduzione e la pubblicazione di alcuni passaggi scelti della sua opera, riconoscendone in calce il debito ideologico come “uno dei primi propagatori delle idee alle quali si è ispirata l’UNESCO fin dalla sua fondazione”.
L’opera più interessante per comprendere il pensiero politico globalista di Comenius è la Panorthosia (traducibile come “Diritto Universale”), dove l’autore elabora la sua futuribile visione di un’autorità mondiale la cui funzione sarebbe stata quella di riformare l’educazione (anche a partire dalla creazione di una neolingua universale), riformare e unificare le religioni in un abbraccio sincretistico e vegliare sulla pace globale prevenendo i conflitti. A questo scopo, Comenius auspica la creazione di tre “comitati universali” a cui sia sottoposta la cultura, la religione e la politica. Un simile progetto di rinnovamento e riunificazione universale non potrà però realizzarsi, secondo Comenius, prescindendo dall’eliminazione dei due grandi poteri che a questa riforma si sarebbero naturalmente opposti, ovvero la Chiesa di Roma e gli Asburgo. Comenius sembra davvero contemplare quelle che, di lì a non molto tempo, diventeranno le tappe di un processo politico e rivoluzionario destinato realmente a cambiare la faccia del mondo.
Ma quali sarebbero, in definitiva, le caratteristiche e gli scopi ultimi del mondialismo?
A dispetto dell’eterogeneità delle origini, le correnti destinate a generare l’ideologia mondialista sembrano avere avuto alcune caratteristiche comuni, che le renderanno “convergenti” fra loro, a partire dall’elitismo tipico di chi si percepisce come depositario di una volontà o di una ragione destinata a pochi (si pensi oggi alla dottrina del Grande Reset) e che si traduce, nella pratica della dissimulazione, dell’azione da “dietro le quinte” e nel rapporto paternalistico con una “massa” vista al contempo come “popolo da condurre” e “strumento da manipolare”.
Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, alcune costanti fondamentali sembrano essere:
1. l’evidente aspirazione a una res publica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite (la plutocrazia, oligarchia o tecnocrazia);
2. la diffusione o imposizione di un pensiero omologato tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di “pensiero unico globale” (da cui quel pensiero unico politicamente corretto oggi in voga con le sue derive e il suo fanatismo, pensiamo alla cancel culture);
3. la lotta contro le “identità forti”, difficilmente omologabili alla cultura mondialista, ritenute strutture “irriducibili” al progetto del nuovo ordine;
4. una strategia d’azione, privilegiante l’utilizzo strumentale della politica, dell’ingegneria sociale e più in generale della manipolazione delle masse (che si declina oggi in un mix oggi di controllo e sorveglianza tecnologica).
Un altro aspetto dell’ideologia mondialista è il suo rapporto stretto – quasi fino a una vera e propria identificazione – con i grandi potentati economici: a tal punto che, nell’immaginario di molti, il mondialismo ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali, che ne sono l’espressione più visibile. Eppure, questo è bene sottolinearlo, il volto economico è solo un aspetto del mondialismo a cui esso non può pienamente ridursi.
Siccome ultimamente vediamo che un caposaldo appunto di questa ideologia mondialista è la dottrina del denatalismo, e ciò lo abbiamo riscontrato sia nei discorsi di Bill Gates, che del ministro Cingolani - il quale dichiara che il pianeta è "progettato" per 3 miliardi di persone - possiamo parlare un attimo del darwinismo sociale e di Thomas Malthus?
Il XIX secolo è un’epoca in cui semplici ipotesi scientificamente mai dimostrate assurgeranno al livello di “verità assodate” a causa della loro convenienza politica. Uno degli esempi più noti è l’opera del pastore anglicano Thomas Malthus, membro di spicco della Royal Society e autore di quel Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società a cui si rifanno, ancor oggi, tutti i teorici del denatalismo e della necessità di contenere o ridurre la popolazione mondiale.
Secondo Malthus, infatti, poiché la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che crescono invece in progressione aritmetica, bisognerebbe fare di tutto per evitare il moltiplicarsi della popolazione stessa, soprattutto, della sua parte più povera. A questo scopo, secondo Malthus, andavano rimossi quei “sussidi per i meno abbienti” (noti fin dal Medioevo britannico come Poor Laws) per evitare che le famiglie fossero invogliate a riprodursi eccessivamente, e mantenere i salari ad un livello minimo di sussistenza.
Se da buon pastore anglicano, Malthus vedeva nella castità e nella continenza il rimedio più accettabile per ridurre la popolazione, da “scienziato” non negava la possibilità di adottare mezzi “di carattere repressivo o preventivo”: le vie repressive contemplavano in un caso l’azione della mortalità per mezzo di epidemie, guerre, carestie, ecc. nell’altro una diminuzione della natalità mediante la diffusione di tutti quei comportamenti, tra cui l’adulterio, la sodomia, ecc. che causano una diminuzione delle nascite.
Se il malthusianesimo è l’antenato più o meno diretto di quei veri e propri dogmi del pensiero mondialista che saranno il denatalismo e l’eugenetica, esso è però certamente l’ispiratore più prossimo del darwinismo. Darwin stesso ne riconobbe l’apporto, specie nell’aspetto così tipico della sua ipotesi che riguarda la lotta per l’esistenza e l’idea della crescita “in proporzione geometrica” delle popolazioni.
Parliamo anche del ruolo della famiglia Huxley nell’imporre il darwinismo…
Senza entrare troppo nel merito del dibattito scientifico, è evidente che l’ipotesi darwiniana, specie nella sua primordiale formulazione, andava incontro a contraddizioni e incongruenze davvero insolubili, delle quali lo stesso Darwin era cosciente. Se a prevalere fossero state le ragioni realmente “scientifiche”, il darwinismo sarebbe tranquillamente morto ancor prima di venire alla luce: ma non fu così. All’atto pratico, chi impose di fatto il darwinismo alla società inglese e, attraverso di essa, alla cultura mondiale, fu un personaggio brillante e astuto: Thomas Henry Huxley, nonno di quel Julian Huxley che sarà il primo Direttore dell’UNESCO e dell’ancora più noto saggista e romanziere Aldous Huxley.
Presidente della Royal Society dal 1883 al 1885, Thomas Huxley fu anche il promotore di un gruppo più ristretto ed esclusivo, l’X Club, (oggi lo chiameremmo un think tank) che ebbe un influsso enorme sulla cultura britannica del tempo, portandola verso una graduale accettazione del darwinismo e dei suoi presupposti, dando così risposta, per altro, allo “stato di spirito” tipico della sua epoca. Il darwinismo, infatti, con la sua idea di lotta per la sopravvivenza e di dominio del più forte ed evoluto poteva divenire una meravigliosa stampella ideologica a sostegno dell’imperialismo inglese (ed europeo in generale). Il retaggio di questo processo sfocia oggi nelle velleità del transumanesimo e del post-umanesimo, come mostro invece nel mio saggio Cyberuomo (Arianna Editrice).