In questi giorni, dopo la conferma dello stop ai programmi di quantitative easing e l’annuncio del rialzo dei tassi da parte della BCE, è partita una lunga serie di critiche in direzione di Francoforte dalle barricate del dibattito economico nostrano. Parlo di barricate usando il plurale perché, in maniera piuttosto inedita, le invettive sono fioccate sia dall’area più eterodossa, quella dei Borghi e dei Bagnai tanto per capirsi, che da quella più ortodossa, quella dei Boldrin e delle altre vestali dell’ordine neoliberale.
Scopo di quest’articoletto è quindi offrirvi un’opinione impopolare sulle recenti decisioni di politica monetaria della BCE, provando a trarre da ciò qualche conclusione sullo stato di salute della governance europea e sulle prospettive che si delineano per il nostro Paese nel prossimo futuro.
Mettiamoci dunque un paio di stivali e addentriamoci in questa valle di lacrime.
Se è vero, com’è vero, che porre fine agli acquisti netti di titoli pubblici è pura follia – e su questo tema torneremo diffusamente tra poco – tutt’altro che scontata è, a mio avviso, la valutazione sulla scelta dell’Eurotower di alzare i tassi di rifinanziamento. In particolare, la critica avanzata dalle barricate di cui sopra è più o meno questa: di fronte a un’inflazione destinata a durare, in presenza di una ripresa del ciclo economico molto più modesta di quanto previsto, sotto all’assurda spada di Damocle della transizione ecologica e con l’incombenza (più a parole che a fatti) del “reshoring”, alzare il costo del denaro provocherà una stretta creditizia che ci farà piombare in stagnazione o, peggio, nella più nera delle recessioni.
Per carità, tutto giusto. Ma c’è un inghippo. Per quanto problematica, temo proprio che la scelta di aumentare i tassi sia una mossa sostanzialmente obbligata dalla necessità di star dietro alla FED. La quale, già a maggio, li aveva tirati su di mezzo punto imprimendo una discreta accelerazione al deprezzamento dell’euro (per chi se lo fosse perso, la monetona unica dall’inizio dell’anno ha perso quasi il 10% rispetto al dollaro). Ora, già l'impalcatura unionista è la baraccona che ben conosciamo, del tutto inadatta ad affrontare qualsiasi imprevisto, figuriamoci un’ondata di prezzi delle materie prime alle stelle. Se poi non si pone neanche un argine all’efflusso di capitali verso il Nuovo Mondo e ci si inoltra in questa selva con un euro che ha praticamente raggiunto la parità sul dollaro o che rischia addirittura di scendergli sotto... Beh, è quasi matematico ottenere una frittata persino peggiore di quella che vediamo oggi. Hai voglia a sperare nel rilancio delle esportazioni dato dal deprezzamento del tasso di cambio: la J-curve è, per l'appunto, una "J". In altre parole, occorre del tempo prima che una svalutazione rispetto alle altre principali divise incida positivamente sul saldo delle partite correnti dell'eurozona. E il problema c'è oggi, anzi c'è già da ieri, e tentare di affrontarlo è più urgente che mai.
Insomma, non che mi faccia particolarmente piacere constatarlo, ma alzando i tassi e cercando di tener su l’euro, Francoforte non ha fatto nulla di diverso da ciò che sempre fatto. Ha tutelato gli interessi che è nata per tutelare, ossia quelli dei grandi gruppi finanziari e industriali europei, cioè tedeschi, e ha calpestato gli interessi che è nata per calpestare, cioè i nostri. Né più, né meno.
Ben altra storia invece è quella del tapering, ossia della cessazione dei programmi d’acquisto di titoli di debito pubblico degli Stati dell’unione. Su questo tema mi allineo alle contestazioni mosse dagli analisti d’estrazione keynesiana, o meglio post-keynesiana, che hanno tuonato in questi giorni. E rincaro anche la dose: la chiusura del quantitative easing è una spia della scarsa lucidità che caratterizza in questo periodo l’azione degli apparati UE. Da notare infatti che nulla vieterebbe di alzare i tassi per tentare di trattenere i capitali nel Vecchio Continente e, al contempo, proseguire con quel minimo di sostegno ai bilanci pubblici che permetta di non far saltare per aria tutta la baracca. Eppure pare che una grave miopia o un’ingordigia più incontenibile del solito stiano prendendo il sopravvento.
Questa mossa della BCE può esser infatti letta sotto due lenti diverse, riflettenti intenzioni diverse. Peraltro, a onor del vero, non mutuamente esclusive.
Prima lente: a Francoforte sono davvero convinti che stringendo i cordoni della borsa potranno attenuare un'inflazione platealmente prodotta da strozzature sul lato dell'offerta. Sì, lo so, è ridicolo, ma non è impossibile. Mai sottovalutare la potenza dell’ideologia, men che meno quella della stupidità.
Seconda lente: a Francoforte hanno l’acquolina in bocca perché sanno benissimo quali saranno le conseguenze del tapering sul nostro Paese. Se n’è fatto cenno qui già quattro mesi fa, ma si fa presto a riassumerle procedendo in ordine (crono)logico: aumento dello spread, emergenza per l’insostenibilità del debito pubblico, “FATE PRESTO”, riforme lacrime e sangue, ulteriore crollo della domanda interna, pioggia di insolvenze di famiglie e imprese, crisi del sistema bancario (già indebolito dal crollo del valore dei titoli italiani detenuti) e, gran finale, rilevazione da parte di qualche gruppo finanziario estero di ciò che resta dei nostri istituti di credito. E non dimentichiamoci la ciliegina sulla torta: tutti gli asset, principalmente immobiliari, messi a garanzia dei crediti bancari che finirebbero in mano ai suddetti gruppi.
Tutto apparentemente bellissimo. O bruttissimo, a seconda della latitudine a cui si risiede. Eppure, per quanto allettante possa risultare questa prospettiva per i gruppi d’interesse ben rappresentati ai vertici delle istituzioni europee, c’è un problemino. Con questo andazzo, come abbiamo avuto modo di constatare nel giro di pochi giorni, si rischia di rompere il giocattolo in men che non si dica. Ossia, si rischia di far finire a gambe all’aria l’Italia in meno di due anni, con tutte le fibrillazioni e le frammentazioni finanziarie che ne conseguirebbero (e che comprensibilmente a Francoforte non sono molto gradite).
Ora, sia dia il caso che gli scenari catastrofici descritti, che – ricordiamolo – per certuni sono un obiettivo, possano esser perseguiti anche senza forzare la mano, senza la necessità di una mossa radicale come lo stop all’acquisto di titoli pubblici. In fin dei conti c’è il PNRR. Quelle poche briciole di autonomia fiscale che ci erano rimaste fino all’anno scorso, le abbiamo delegate a Bruxelles. Quindi che senso ha aver fretta di chiudere il rubinetto, quando ormai si ha in mano la sistola? Fuor di metafora, per i non toscani: che senso ha imporre una stretta draconiana alla spesa pubblica dopo averne ottenuto un controllo pressoché totale? Certo, manca ancora il MES (che, a giudicare dalla fanfara di regime, è dietro l’angolo), ma insomma bisogna esser incredibilmente ciechi o clamorosamente ingordi per rischiare di compromettere tutto, anche i propri interessi.
Alla fine della fiera insomma, che valga la prima lente, che valga la seconda o che siano buone entrambe, la conclusione è la stessa. Sono più cialtroni che malvagi. E fortunatamente, per chi vuol cambiare le cose, questa è una buona notizia.
P.S. A riprova della conclusione offerta, propongo una scommessa. Cosa ci giochiamo che entro la fine dell’anno dalle parti della BCE ricalibrano il tiro e rilanciano qualche nuovo programmino di allentamento quantitativo?